Un vero maremagnum! Soprattutto perché hanno stili molto diversi tra loro. Gli inluencer cattolici, già da almeno 10 anni, popolano la rete intenzionati a tradurre il vangelo, anche in quello spazio. Ma cosa significa evangelizzare nella rete? Ma, ancora prima: cosa significa abitare la rete con un atteggiamento di fede? Gli stili e le forme degli influencer sono molto diversi tra loro e, forse, bisognerà iniziare a valutare se e quanto questi stili siano davvero in sintonia con le richiesta della nuova evangelizzazione e la Chiesa in uscita.

di Gilberto Borghi

 È reale l’effetto che fa?

Evangelizzatori nello zoo virtuale

 Tra i miei studenti è una parola che quasi si evita appositamente.

Forse perché è talmente vissuta e radicata nel loro quotidiano, che non ne avvertono più nemmeno la necessità di parlarne. Gli influencer. Per loro seguire tre o quattro persone quotidianamente nelle varie “comunicazioni” che rilasciano sulla rete è la normalità. E non è infrequente che fra questi ci siano anche personaggi che fanno esplicito riferimento alla fede in Cristo. Quindi, che esistano persone che in rete centrano le loro comunicazioni sui temi della fede è un dato. Che siano seguiti e apprezzati, lo è altrettanto. Cercando, perciò, di entrare un po’ dentro a questo mondo, ho seguito, anche se non quotidianamente, alcuni di questi e mi sono letto parecchi articoli sul tema. Al momento credo che si possano individuare almeno tre tipologie di influencer cattolici.

 Quelli che “tanto è uguale”

La prima. Molti sacerdoti, catechisti, teologi, docenti si pongono nella rete in modo quasi identico a come lo farebbero nella realtà. Per lo più postano omelie, commenti al vangelo, catechesi, esortazioni spirituali, riflessioni teologiche con lo stesso linguaggio, le stesse forme, tempi e ritmi comunicativi che utilizzerebbero nella relazione reale. Anche gran parte delle comunicazioni che le istituzioni cattoliche propongono sulla rete possono essere assimilate a questa categoria. Numericamente, forse, sono la maggioranza dei cattolici presenti in rete, ma è ovvio che non riescono ad ottenere grande seguito; in genere si stabilizzano su numeri bassi di follower, pescati soprattutto all’interno di coloro che, nella realtà, già hanno il cattolicesimo come riferimento di fede.
Ciò perché non hanno compreso che abitare la rete è molto diverso dall’utilizzarla solo come strumento per potenziare la comunicazione e ipotizzano che evangelizzare in rete significhi trasportare lì dentro la realtà esterna. Abitare la rete significa, invece, rendersi conto e accettare che l’essere umano, da qualche decennio, ha messo assieme una nuova dimensione della propria vita. Accanto a quelle razionali, emozionali, corporee, esiste ora anche quella virtuale. La rete, in sostanza, è un luogo di vita, che come tale ha i suoi linguaggi, i suoi tempi, le sue forme. E chi non lo riconosce potrà al massimo entrarvi come “turista” momentaneo, ma di sicuro non potrà pretendere che la sua presenza lasci qualche traccia significativa. Ma il problema è che queste persone, già da tempo, spesso non riescono ad essere sufficientemente efficaci in termini di evangelizzazione nemmeno più nella realtà, continuando a far passare un’idea astratta di vangelo, che deve entrare nella vita con lo sforzo del fedele, perché di suo nella vita non ci starebbe.

 Quelli che “io ti commuovo”

La seconda forma di presenza cattolica nella rete si ritrova in coloro che producono comunicazioni essenzialmente “emozionali”. In ossequio ad uno dei dogmi fondamentali, non scritti, della rete usano linguaggi, ritmi, forme e tempi che mirano a suscitare le emozioni di chi sta dall’altra parte. Alcuni di essi hanno modificato appositamente il loro stile comunicativo, usato abitualmente nella realtà, per ottenere questo obiettivo. Altri, invece, anche nella realtà usavano già uno stile del genere. Appartengono a questa categoria sicuramente meno persone, ma tra questi ci sono molti leader di movimenti, anche noti, personaggi famosi nella realtà, magari dotati di carisma attrattivo, che però rischiano di finire per essere percepiti come telepredicatori che, alla scuola di quelli televisivi americani, hanno imparato le tecniche tipiche del marketing pubblicitario e le applicano alle tematiche di fede, nel tentativo di suscitare adesioni emozionali istantanee, che poi, forse, lasciano il tempo che trovano.
In questo senso c’è da chiedersi se non si rischi di provare a “vendere Dio”, come si venderebbe qualsiasi altro prodotto. Così che il lato di mercato della figura dell’influencer continua anche per loro ad essere essenziale. Il numero e la qualità delle reazioni emotive registrabili nei follower, finisce per essere l’unico elemento di valutazione del proprio operato e la qualità della relazione personale tra influencer e singolo follower finisce per essere solo strumentale all’accrescimento del valore di marketing dell’influencer stesso. Scivolando così verso un vangelo in cui la “cura” effettiva della persona che entra in relazione con l’evangelizzatore diviene solo tattica in vista del suo convertirsi.

 Quelli che invece c’azzeccano

La terza forma degli influencer cattolici può essere ravvisata in coloro che, vivendo la rete effettivamente come un luogo esistenziale effettivo, provano a trovare forme, linguaggi, ritmi e tempi delle loro comunicazioni che siano in sintonia con quel luogo, ma nello stesso tempo lo siano anche rispetto al vangelo. Sono numericamente pochi e con poca visibilità numerica, in genere più laici che sacerdoti. Di solito iniziano seriamente dall’ascolto dell’altro, cercando una comunicazione che possa produrre una relazione vera, pur se virtuale, con l’interlocutore e fanno poi della metafora, della narrazione esperienziale, dell’ironia, alcuni degli strumenti principali per provare a far parlare il vangelo qui e ora, con quella specifica persona e quella sua particolare storia.
Non si nascondono i contenuti di fede sotto a linguaggi artefatti, ma nemmeno li si spara in faccia all’altro come proiettili aggressivi o maschere difensive. Semplicemente li si offre, quando e se c’è lo spazio per farlo, in relazione a quella persona lì, evitando così di generalizzare e standardizzare il proprio dire. Dotati di una discreta capacità di empatia, in molti casi finiscono per costruire relazioni personali che debordano dalla rete ed entrano nel reale, con incontri diretti, in cui anche la presenza fisica finisce per parlare della loro fede, e non poche volte dando inizio a percorsi personali di accompagnamento.
Ovviamente qui il criterio di valutazione non è tanto il numero e la fedeltà del follower, che ci può anche essere, ma che di per sé dice poco. Il criterio diventa quello di aver o no dato origine a un processo, ad una relazione, che come tale poi si potrà sviluppare se ci saranno le condizioni per coltivarla. Ecco, forse questo sembra essere un criterio più evangelico e nello stesso tempo possibile anche nella rete. Per provare a vivere anche lì il vangelo: essere nel mondo-rete, ma non del mondo-rete.