C’è un principio squisitamente economico che sostiene l’impalcatura del carcere: l’idea che si possa quantificare il danno apportato dal reato e farvi corrispondere in misura almeno simbolica un tanto di pena afflittiva. È il modello “retributivo” superato perfino dal sistema previdenziale. L’ideale è un modello di giustizia riparativa. Ma se almeno si muovesse un passo verso un modello dove chi ha arrecato un danno non subisce soltanto, ma viene portato a contribuire attivamente al bene comune! Dallo spreco all’investimento: non è buonismo, ma intelligenza.

a cura della Redazione di “Ne vale la pena”

 Ma non è Giuditta!

Modello retributivo e modello contributivo

 DIETRO LE SBARRE

Mondo di fuori, mondo di dentro

Tutto ciò che esiste nel mondo di fuori viene esasperato ed inasprito nel mondo di dentro.

A questa regola non sfuggono l'economia e la finanza, che non solo regolano, di fatto, il sistema carcere, ma sono state anche la principale causa della sua nascita. In “Carcere, l'alternativa è possibile”, Giorgio Pieri scrive che, prima della rivoluzione industriale e della nascita del capitalismo, in carcere non ci si finiva per espiare una pena, ma in attesa della pena, capitale o, nei casi più lievi, pecuniaria, passando attraverso punizioni corporali e umiliazioni pubbliche più o meno grottesche.
La rivoluzione industriale ha creato un’enorme quantità di nuovi poveri. Le città hanno visto le proprie periferie popolarsi di una massa di scarti umani che finivano inesorabilmente per delinquere, spesso in maniera feroce, terrorizzando la nuova classe economica dominante, la borghesia, che cerca di gestire le proprie paure rinchiudendo il più a lungo possibile coloro che minacciano il suo benessere economico.
Dopo tre secoli non è cambiato nulla. L’ideologia nasconde lo sporco sociale sotto il tappeto e terrorizza i bravi cittadini con allarmanti emergenze criminali, a cui seguono nuove leggi e copiosi arresti, efficaci solo per aumentare il livello di sovraffollamento carcerario, che ha raggiunto livelli non degni di una società moderna ed evoluta. La povertà non può costituire un alibi per delinquere, ma la nuova massa di poveri, immigrati, disoccupati, ragazze madri, trova oggi nello spaccio, nella criminalità e nella violenza, una facile via per accedere alla società dei consumi, che ormai non ti giudica neanche più per quello che hai, ma per quello che puoi comprare.
Nel mondo di dentro la povertà economica e culturale impedisce a migliaia di individui non solo di accedere ad un giusto processo, ma anche di affrontare una dignitosa detenzione. Avere disponibilità economica permette al detenuto di comprare e cucinarsi cibo decente, una colazione, un caffè accettabile, qualcosa da fumare, shampoo, dentifricio, sapone e un giornale da leggere, tutte cose che l’amministrazione non offre. Senza soldi, in carcere non si può nemmeno usufruire delle telefonate per l’avvocato o per i familiari autorizzati dalla stessa magistratura, e questo è l’ennesimo fatto che può portare chi non dispone di nulla all’esasperazione.
Per accedere alle pene alternative, poi, è necessario avere una casa dove stare e una famiglia che ti possa mantenere. II formidabile lavoro delle comunità e del terzo settore riesce solo a tamponare questa situazione. Una soluzione possibile esiste ed è lo stato sociale. Le non poche risorse di cui lo Stato dispone (tre miliardi e cinque milioni di Euro per il 2020, fonte: ministero della Giustizia), dovrebbero essere distribuite a sostegno dei soggetti più deboli e vulnerabili. Invece in Italia il 67% delle risorse economiche stanziate è destinato alla Polizia Penitenziaria, con una percentuale che nemmeno le carceri americane, che hanno come fine ultimo la vendetta e la repressione, possono vantare.
Peraltro, al contrario di quello che si crede, investire nel supporto economico agli ultimi e nella rieducazione genera profitto. La recidiva di coloro che scontano una pena nelle prigioni dei paesi dove lo stato sociale è stato meglio realizzato, Danimarca, Svezia, Canada, Norvegia etc, è tra il 20 e il 30 %, cioè meno della metà di quello che avviene in Italia, il cui governo sta perseguendo ancora l’idea di applicare (come nelle scuole e nella sanità) quel criterio punitivo che ha prodotto risultati che parlano da soli: negli ultimi 20 mesi i detenuti che si sono suicidati sono 108. La maggior parte dei quali erano soggetti economicamente e culturalmente poveri, abbandonati a se stessi dallo Stato e dalla società.

Lolli

 Tra micro e macro

La comunità carcere tende a produrre conformismo, cioè obbedienza alle norme del gruppo e mantenimento dello status quo. Un esempio eclatante è che, incuranti del fatto che non ci siano possibilità di incontro con l’esterno, i detenuti scelgono per lo più di indossare tute e scarpe firmate per dimostrare il proprio status e, se vogliamo, per confermare l’idea del proprio glorioso passato, che essi stessi hanno inventato. Il sistema tende ad uniformare ed appiattire le differenze, ostinandosi a limitare l’accesso di oggetti di valore, a contingentare l’abbigliamento firmato, a limitare la possibilità di spesa dal sopravvitto, e cioè dal supermercato del carcere.
Le possibilità di spesa sono garantite alla persona detenuta da ciò che le famiglie mettono a disposizione attraverso i colloqui o con i bonifici. Appare subito evidente la disparità di condizioni di vita tra chi ha la possibilità di ricevere risorse da fuori e chi invece deve accontentarsi di ciò che “passa il convento”. Il lavoro permetterebbe di godere di un minimo di salario, offrendo al tempo stesso l’acquisizione di abilità spendibili sul mercato del lavoro esterno. Buoni propositi, generalmente però inattuati perché a lavorare è solo una minima parte dei detenuti. La scarsità di lavoro all’interno delle carceri è un problema storico. Ciò ha contribuito in maniera rilevante a far emergere tra i detenuti situazioni conflittuali per l’accesso competitivo al posto di lavoro. Sperequazione economica esiste tra le celle più ricche, occupate da due lavoranti fissi, e quelle più povere, soprattutto se non viene praticata la solidarietà.
In carcere si rispolvera anche il baratto, dal momento che lo scambio di denaro fra persone detenute non è possibile. Il baratto è un’operazione di scambio bilaterale o multilaterale di beni e servizi. Anche in carcere, come nelle società non monetarie, si opera largamente secondo il principio dell’economia del dono e del debito. Allora le sigarette sono, al pari dell’abbigliamento, merci di scambio nei rapporti tra i detenuti: si genera così un’economia informale che caratterizza la vita della comunità tanto quanto e forse più di quella ufficiale.
Per il vitto che “passa il convento” le gare al massimo ribasso incidono negativamente sulla qualità delle materie prime e sul cibo che quotidianamente viene preparato nelle cucine dell’istituto per poi essere distribuito nelle sezioni tramite il “carrello” a cui ricorre solo chi proprio non ha nessuna risorsa. Fortunatamente in carcere c’è anche solidarietà, che, come suggerisce Wikipedia, è un atteggiamento di benevolenza e comprensione che si esprime in uno sforzo attivo e gratuito, teso a venire incontro alle esigenze e ai disagi di qualcuno che abbia bisogno di un aiuto. Nel sistema economico del carcere questo è ancora un valore praticato dai più, mentre è spesso ignorato dalla società dei buoni, pronti più a criminalizzare che ad offrire una seconda opportunità.

Fabrizio Pomes