Cercasi guide serie, no perditempo

Il pensiero francescano può condurci nella difficile trasformazione economica attuale

 di Stefano Zamagni
economista

La ricorrenza degli Ottocento anni dell’approvazione papale della Regola è una splendida occasione per riflettere su una questione oggi di grande rilevanza: i francescani hanno abbandonato l’economia?

Non ho qui lo spazio per ripercorrere una vicenda storica, esaltante quanto poche, punteggiata da nomi illustri quali quello di Bonaventura da Bagnoregio, Pietro Olivi, Luca Pacioli, Duns Scoto, Guglielmo di Ockham, Enrico di Gand, Bernardino da Siena, Bernardino da Feltre e di tantissimi altri: veri e propri giganti del pensiero francescano e non solo. (Me ne sono occupato estesamente altrove).
È merito grande della scuola francescana quello di aver saputo declinare in termini sia istituzionali sia economici il principio di fraternità facendolo diventare un asse portante dell’ordine sociale. È stata infatti tale scuola a dare a questo termine il significato che esso ha conservato nel corso del tempo. Ci sono pagine della Regola di Francesco che aiutano bene a comprendere il senso proprio del principio di fraternità. Che è quello di costituire, ad un tempo, il completamento e il superamento del principio di solidarietà. Infatti, mentre la solidarietà è il principio di organizzazione sociale che consente ai diseguali di diventare eguali, il principio di fraternità è quel principio di organizzazione sociale che consente ai già eguali di esser diversi - si badi, non differenti. La fraternità consente a persone che sono eguali nella loro dignità e nei loro diritti fondamentali di esprimere diversamente il loro piano di vita, o il loro carisma.

 Bene totale o bene comune?

Le stagioni che abbiamo lasciato alle spalle, l’Ottocento e soprattutto il Novecento, sono state caratterizzate da grosse battaglie, sia culturali sia politiche, in nome della solidarietà e questa è stata cosa buona; si pensi alla storia del movimento sindacale e alla lotta per la conquista dei diritti civili. Il punto è che la buona società non può accontentarsi dell’orizzonte della solidarietà, perché una società che fosse solo solidale, e non anche fraterna, sarebbe una società dalla quale ognuno cercherebbe di allontanarsi. Il fatto è che mentre la società fraterna è anche una società solidale, il viceversa non è vero.
Con l’avvento dell’economia di mercato capitalistico, a far tempo della fine del Seicento, il pensiero francescano inizia il suo lento declino (non però le opere di carità e le pratiche di misericordia). È agevole comprenderne le ragioni: il nascente capitalismo pone il suo fine ultimo nel bene totale - come aveva insegnato la Riforma Protestante -, mentre per il francescanesimo il fine dell’agire economico è il bene comune. I francescani danno dunque fastidio! Meglio allora emarginarli, togliendo loro ogni rispettabilità scientifica e negando loro l’accesso ai luoghi di produzione dell’alta cultura - universitaria e non.
La situazione inizia a mutare nel corso dell’ultimo mezzo secolo, quando ci si rende conto che l’impianto teoretico del mainstream economico è, per un verso, aporetico, per l’altro verso, fallace. Rispetto alle grandi sfide dell’oggi (aumento sistemico delle diseguaglianze sociali; distruzione dell’ecosistema; paradosso della felicità; disaccoppiamento tra democrazia e mercato; l’avanzata dell’individualismo di singolarità; l’instabilità dell’ordine geo-politico globale) la tradizione di pensiero calvinista si dimostra non all’altezza di queste (e altre) sfide. E se così non fosse, perché mai quel pensiero non ha provveduto alla bisogna?

 Nuove esigenze

Ebbene, è proprio in tale situazione di crisi che, in una pluralità di ambienti e in forme diverse, si assiste ad una vigorosa ripresa di interesse nei confronti del pensiero francescano. Si pensi al ritorno, nei luoghi dell’alta cultura, dell’economia civile - un paradigma che nasce istituzionalmente all’Università di Napoli nel 1753, diffondendosi poi a Milano e altrove in Europa occidentale - ma che ha salde radici nel pensiero francescano del Tre-Quattrocento. Si pensi anche al progetto dell’Economia di Francesco, lanciato da papa Francesco il 1° maggio 2019 a tutti i giovani economisti dei vari paesi del mondo e che sta evolvendo in modo del tutto inaspettato. Si pensi ancora al neo-ambientalismo e alle proposte che esso avanza di andare oltre sia l’antropocentrismo sia l’ecologismo estremo. E così via, con altri esempi di cui non ho qui lo spazio di dire.
Siamo così giunti al punto di arrivo del discorso. In questo momento storico, in cui di straordinario ausilio sarebbe la prospettiva di sguardo sulla realtà economica del francescanesimo, questa è pressoché assente, non certo per mancanza di volontà o per difetto di comprensione da parte dei frati, ma perché, dopo secoli di emarginazione dal pensiero pensante in economia, le difficoltà di coniugare il ritorno alle origini con il necessario aggiornamento della teologia alla società contemporanea sono oltremodo elevate. (Va da sé che vi sono certo delle eccezioni, ma si tratta di casi singoli).

 Non per dovere né per interesse

Ma non c’è da disperare. Chi scrive coltiva la certezza che non occorrerà attendere ancora molto tempo per vedere la famiglia francescana in grado di dare nuove e più robuste ali al proprio carisma specifico, elaborando una teologia dell’economia, al posto dell’ormai inadeguata e obsoleta teologia economica, che valga a svelare la natura religiosa del capitalismo attuale e, in particolare, del progetto transumanista, oggi in grande espansione. Cosa c’è al fondo di tale certezza? La presa d’atto che ciò di cui il nuovo mondo ha bisogno non è un cambiamento, ma una trasformazione. Il primo, infatti, avviene nella continuità, come una progressione lungo la medesima strada. Nella trasformazione, invece, c’è un passaggio di forma, un mutamento di stato. Il cambiamento è esteriore (posso cambiare abito e restare la stessa persona); la trasformazione è interiore. Per il cambiamento bastano dirigenti (manager); per la trasformazione servono invece guide (leader), cioè testimoni coraggiosi come sempre sono stati i francescani.
Aver dimenticato il fatto che non è sostenibile una società di umani in cui si estingue il senso di fraternità e in cui tutto si riduce, per un verso, a migliorare le transazioni basate sullo scambio di equivalenti e, per l’altro verso, ad aumentare i trasferimenti attuati da strutture assistenziali di natura pubblica, ci dà conto del perché, nonostante la qualità delle forze intellettuali in campo, non si sia ancora addivenuti ad una soluzione credibile delle sfide più inquietanti. Non è capace di futuro la società in cui si dissolve il principio del dono come gratuità; non c’è felicità in quella società in cui esiste solamente il “dare per avere” oppure il “dare per dovere”. Ecco perché, né la visione liberal-individualista del mondo, in cui tutto (o quasi) è scambio, né la visione statocentrica della società, in cui tutto (o quasi) è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui l’attuale grande trasformazione di tipo polanyiano sta mettendo a dura prova la tenuta del nostro modello di civilizzazione.

 Dell’Autore segnaliamo:
Responsabili. Come civilizzare il mercato
Il Mulino, Bologna 2019, pp. 248