Paolo Raffaele e Fabrizio ci parlano di Giovanni di Dalyata, un monaco siriano dell’ottavo secolo, che ci fa scoprire la bellezza nascosta in ciascuno di noi. Poi Paolo Grasselli ci aiuta a ricordare fr. Gianfranco Meglioli, John per gli amici, non scattante ma fedele e preciso.

a cura della Redazione

Oltre i confini dell’impero

La bellezza nascosta in te 

intervista a Paolo Raffaele Pugliese, frate cappuccino e patrologo
a cura di Fabrizio Zaccarini, della Redazione di MC

 Fra Paolo Raffaele Pugliese ha appena curato la traduzione delle lettere di Giovanni di Dalyata per l’editrice Qiqajon, pubblicata con il titolo La bellezza nascosta in te. Ne parliamo un po’.

 Chi è Giovanni da Dalyata?

Giovanni è un monaco della Chiesa siro orientale che parla e prega in aramaico, la lingua parlata dagli Ebrei al tempo di Gesù.

Una Chiesa che si sviluppa fuori dai confini dell’impero romano, dove il potere politico qui si faceva garante dell’ortodossia della Chiesa. Giovanni invece è figlio di una Chiesa che vive in un territorio dedito prima alla religione tradizionale persiana, e poi, al tempo di Giovanni, all’Islam. Questo è molto interessante per noi, oggi, che stiamo chiaramente andando verso un tempo in cui saremo anche noi minoranza.

 Qual è il suo periodo storico?

Giovanni vive tra settimo e ottavo secolo d. C. e si muove tra sud est della Turchia e Iraq. Fa parte di un’espressione del monachesimo siriaco che è frutto della riforma avvenuta alla fine del sesto secolo ad opera di Abramo da Kashkar. Riforma che genera una straordinaria fioritura di monasteri siriaci in tutta la penisola arabica, in Qatar, in Persia. Questi monaci andranno ad evangelizzare in India, Cina, Mongolia. Ed è straordinario come questa espansione avvenga senza alcuna protezione politica. A questa riforma fa seguito una fioritura di grandi personaggi che stiamo sempre meglio conoscendo, il maggiore dei quali, figlio della Chiesa siro orientale di Persia, è Isacco di Ninive. I suoi scritti si diffondono in tutte le chiese. Persino tra i monaci del Monte Athos, tutt’altro che simpatizzanti delle tradizioni non-ortodosse, Isacco è un riferimento importante. Tra le altre figure il nostro Giovanni le cui lettere, subito, mi sono sembrate un testo straordinario che doveva essere proposto ai lettori italiani.

 A chi scrive Giovanni?

Giovanni ha scritto una cinquantina di lettere che sono state pubblicate negli anni Novanta in edizione critica, con traduzione francese, a cura di un carmelitano francese, Robert Beulay. I destinatari sono monaci e le lettere trattano temi della vita spirituale, la preghiera, l’esperienza di Dio, con un linguaggio estremamente poetico, con un pathos che ricorda san Francesco. Lettere scritte per monaci, che sono frutto della sua personale esperienza, ma che, allo stesso tempo, possono essere affascinanti per chiunque sia alla ricerca di Dio. Certo, Giovanni, è un solitario. In questa esperienza monastica, dopo i primi anni di formazione in cenobio, cioè in comunità, ogni monaco si scava, o costruisce, una cella e lì, in solitudine, fa dell’incontro con Dio e in particolare della preghiera la sua attività principale. I monaci si ritrovavano poi ogni sabato per la celebrazione eucaristica e restavano insieme fino alla domenica mattina. È la forma del monachesimo del deserto di Giudea, che dal greco “lavra”, cella, definiamo “lavriota”. Abramo di Kashkar presupponeva che chi diventava monaco sapesse leggere. Anche se questo non è un monachesimo caratterizzato da ambizioni intellettuali, è tuttavia un monachesimo, di fatto, colto. I monaci siriaci, infatti, coltivano una profonda conoscenza della tradizione patristica greca, che loro stessi si occupano di tradurre.

 Quali sono le caratteristiche principali di questa spiritualità?

È una spiritualità incentrata sull’intimità con Dio e caratterizzata dalla consapevolezza che essere uniti a Gesù uomo-Dio significa essere uniti ad ogni uomo. Mette la carità al primo posto, ma nella solitudine, cioè, urgenza prima e più importante di tutto è amare l’Altissimo, il resto ne è conseguenza. Per cui capita anche di dare una mano ai poveri, certo, ma l’obiettivo della vita è amare Dio con tutto sé stessi, con tutta l’anima, con tutta la forza, con tutta la mente. Una vita di grande ascesi e preghiera in cui ci si pone lontano da tutti, per essere, paradossalmente, vicino a tutti: gli esiti sono quelli di una misericordia, di un’accoglienza senza limiti. In un’epoca di grandi lotte cristologiche ed ecclesiali, queste vanno messe da parte perché a loro è evidente che “amerai il tuo nemico” vale più di qualsiasi lotta. Per questo gli scritti di Isacco di Ninive e di Giovanni di Dalyata varcano i confini nazionali. La Chiesa etiope, di tendenza dottrinale opposta a quella siro-orientale, tuttavia si modella sul Libro dei monaci che raccoglie gli scritti di Isacco di Ninive, Giovanni di Dalyata e Dadisho’ Qatraya, tutti e tre monaci siro-orientali.
Giovanni dice che non c’è cosa peggiore per un monaco che nutrire del rancore per qualcuno o giudicare qualcuno. Un insegnamento come questo, chiaramente fondato su Gesù e su tutta la Scrittura, allo stesso tempo travalica tutti i confini e aiuta a capire ciò che conta davvero. In quell’epoca le chiese erano in conflitto, in Persia l’Islam diveniva maggioritario, e questi monaci dicono: non giudicare, ma sii in profonda comunione con Dio; frutto di questa sarà un amore mite e universale. Molti sono gli elementi in comune tra questi monaci e san Francesco, in particolare l’insegnamento sulla preghiera, che è entrare nella stanza del tesoro che è il nostro cuore dove lo Sposo ci attende. Qui il credente non prega più, è totalmente inebriato dalla bellezza dello Sposo più bello di ogni cosa. Di qui il titolo del libro, che non ho scelto io. In siriaco “shafiro”, “il bello”, è Cristo e la bellezza è certamente il tema più ricorrente nelle lettere.