Una vecchia sporca storia

L’ineluttabilità della guerra e la speranza in un ponte

 di Anita Prati
insegnante e collaboratrice di SettimanaNews

 Amate i vostri nemici (Mt 5,44). La Parola più scandalosa, esigente, rivoluzionaria, difficile - impraticata - della nostra Storia.

Il filo della Storia si dipana di guerra in guerra, di nemico in nemico. Sfilano i decenni, i secoli, i millenni: all’inizio della Storia, a quattromilacinquecento anni da qui, la sumerica Stele degli Avvoltoi celebra la vittoria militare del sovrano di Lagash in un conflitto con la limitrofa città di Umma per un lembo di terra di confine. È lo stesso copione che ritroviamo, oggi, nella guerra tra Russia e Ucraina. Gli esperti di strategia militare, gli analisti geopolitici, gli storici di professione, possono ben impegnarsi, ogniqualvolta si apra un nuovo scenario bellico, in fitte ricostruzioni delle dinamiche e delle cause, remote ed immediate, dell’ostilità che ha provocato la deflagrazione del conflitto: di fondo, ogni guerra non fa che fotocopiare il già visto.

Nemici

La guerra è uno spettacolo che si recita a soggetto. Il soggetto è: Dove passa il confine? Dove si piantano i pali? Dove si alza il muro? Dove finisco io e dove cominci tu? La guerra è, anche e soprattutto, una questione di identità: l’alterità traccia il confine, permettendomi di definire la mia identità. Ma il confine è fragile, e può diventare pericoloso e violento: l’altro ci può apparire, anziché come ospite da accogliere, come nemico da respingere ed eliminare.
Nemici. La parola si propone con la linearità incontrovertibile delle definizioni puntuali, prive di slabbrature. Nemici: popoli che si odiano, che imbracciano armi per farsi violenza, che si ammazzano reciprocamente, dentro una tragica dimensione di autismo collettivo. C’è stato un tempo - neanche troppo lontano - in cui anche noi italiani avevamo dei nemici da uccidere. Nella Prima Guerra Mondiale i nostri nemici da uccidere erano gli austriaci; la Seconda iniziò con un nemico, i francesi, e terminò con un altro, i tedeschi. Succede. 
Nemici. La comunicazione fra le parti è impossibile, e ad ognuno dei contendenti non resta che recitare la propria, fino in fondo, fino allo sfinimento. Nemici fino alla morte, nemici oltre la morte: l’odio scava radici che si diramano di generazione in generazione, e ogni nuova generazione viene educata a cercare vendetta per le ingiustizie commesse sulla precedente.
Nemici. La guerra giustifica e dà senso all’odio, costruisce e giustifica il nemico. La costruzione del nemico inizia con il dilatare e il dare massima risonanza alle differenze, per poi arrivare alla cancellazione, nell’altro e dall’altro, di ogni traccia di umanità. A questo punto il nemico è diventato la personificazione del male assoluto.

 Muri e ponti

Il popolo nomade fattosi stanziale diventa guerrafondaio. Stabilisce i confini delle proprietà, alza i muri, divide. Il muro si palesa come esercizio di ostilità, come ostilità in atto. Ogni tanto anche da noi, che da quasi ottant’anni non siamo più in guerra con nessuno, e che al momento sembreremmo non avere nemici, ogni tanto qualcuno ci prova a rilanciare l’idea: ah, i buoni vecchi muri di una volta… perché non costruirne uno a Trieste, là sul Carso, al confine tra Italia e Slovenia, per difenderci dai nemici che ci invadono a piedi attraverso la rotta balcanica - proponeva giusto un paio d’anni fa il nostalgico Salvini.
Eppure sul confine, anziché costruire o rinforzare barriere, si possono costruire dei ponti. Il ponte è l’altra possibilità, l’altro volto del muro. Costruire un ponte è un gesto dalla fortissima valenza simbolica. Per questo nell’antica Roma i “costruttori di ponti”, i Pontifices, erano sacerdoti. L’arco del ponte lega e collega due sponde opposte del fiume, due rive nemiche, due luoghi altri, due alterità - l’umano e il divino, l’immanente e il trascendente.
Se potente è il simbolo del pontem facere, altrettanta, se non maggiore, potenza simbolica è implicata nel gesto distruttivo del tagliare i ponti. Durante le guerre jugoslave, che insanguinarono i Balcani tra il 1991 e il 2001, fra le immagini che, più di ogni altra, sono assurte a simbolo della ingiustificata follia della guerra, vi sono le riprese della distruzione del Ponte Vecchio di Mostar, che dal XVI secolo collegava le due parti della città, raccontando una lunga storia di convivenza pacifica tra le due comunità dei serbi ortodossi e dei musulmani - una storia ben diversa da quella proposta dai nazionalisti serbi e croati che avevano innescato la folle tragedia della guerra. Crollato dopo due giorni di cannoneggiamenti la mattina del 9 novembre 1993, lo Stari Most fu ricostruito con le stesse pietre e inaugurato dieci anni dopo, nel luglio 2004, per tornare ad essere simbolo di una possibilità di riconoscimento e di scambio reciproco, di riconciliazione e di unità fra popoli diversi.

 Il poema della forza

Negli anni 1939-1941, a ridosso dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Simone Weil scriveva un breve, intenso saggio dal titolo L’Iliade, poema della forza. Meditando sul capolavoro che, da tremila anni, canta la guerra tra Greci e Troiani, Simone Weil definiva la forza ciò che rende chiunque le sia sottomesso una cosa, pietrificando, diversamente, ma ugualmente, le anime di quelli che la subiscono e di quelli che la usano. La brutalità della guerra nell’Iliade non è taciuta o nascosta; ma nel poema non traspare mai odio o disprezzo per i vinti, né ammirazione per i vincitori: c’è, piuttosto, consapevolezza della reciprocità dei destini di chi viene toccato dalla forza, sia che se ne serva, sia che la subisca, perché è la forza ad esercitare il dominio su ogni cosa.
Proprio perché la forza stritola tutti coloro che tocca, non è posseduta da nessuno ed è esteriore tanto rispetto a chi la esercita, come rispetto a chi la soffre, nell’Iliade si fa strada l’idea di un destino sotto il quale i carnefici e le vittime sono del pari innocenti, i vincitori e i vinti fratelli nella stessa miseria. È il sentimento della miseria umana che genera il sentimento della prossimità tra vincitori e vinti; ed è solo guardando la vita da questo punto prospettico che si riesce a superare la fallace illusione di poter tracciare una linea di demarcazione netta tra bontà assoluta e malvagità assoluta.
L’esperienza brutale della guerra tra Greci e Troiani dà forma alla consapevolezza di un destino comune per tutti gli uomini, ugualmente sottomessi alla forza. Nel quadro uniforme d’orrore dispiegato dalla guerra, perciò, l’unica possibilità di salvezza per l’anima umana viene dai gesti di abnegazione e di amore che riescono a superare lo stordimento e l’accanimento della battaglia: il trionfo più puro dell’amore, la grazia suprema delle guerre, è l’amicizia che sale al cuore dei nemici mortali.
E così, proprio dalla consapevolezza che nulla è al riparo dalla sorte fiorisce il lascito più vero del poema: non ammirare mai la forza, non odiare i nemici, non disprezzare gli sventurati.