Mio padre è un bazooka, mia madre una mina

Uno sguardo complessivo a un mondo dove la guerra è di casa

 di Lorenzo Nannetti
collabora con Il Caffè Geopolitico e con Wikistrat

 Chi studia gli eventi internazionali conosce un importante database online chiamato ACLED (Armed Conflict Location and Event Database), un vero e proprio registro degli eventi di conflitto in tutto il mondo.

Ogni battaglia, protesta, attacco contro civili, sommossa, attentato o altro evento cruento viene registrato e localizzato, così da permettere a studiosi e ricercatori di poter verificare velocemente le aree di crisi intorno al mondo e le tendenze più recenti. Una serie di rapporti commentano e spiegano poi i dati grezzi ai meno esperti.
L’immagine che si ottiene dalla mappa interattiva è poco confortante: una nuvola di punti e pallini più o meno grandi sparsi letteralmente per tutto il mondo. È davvero difficile trovare aree vuote, con rare eccezioni.

 Tutto il mondo

Nell’ultimo anno sono stati oltre 110.000 gli eventi di violenza politica in giro per il mondo: non si intende perciò semplice criminalità, bensì atti che mostrano tensione sociale o politica: battaglie, violenze contro civili (dai pestaggi alle uccisioni alle violenze sessuali, per citare i casi principali), esplosioni, proteste cruente o repressioni delle stesse, in alcuni casi più tipologie per lo stesso evento. Paradossalmente, il sito mostra come tale cifra sia in calo rispetto all’anno precedente, nonostante la guerra in Ucraina scoppiata proprio nel 2022.
Del resto sarebbe errato considerare quella tra Mosca e Kiev come l’unico conflitto oggi esistente: anche solo il monitoraggio degli scontri armati evidenzia un pattern di conflitto davvero diffuso. Oltre all’Ucraina, alcune sono guerre vere e proprie (spesso civili) che alternano tregue a momenti di combattimenti più accesi: Siria, Yemen, Afghanistan, Somalia, Etiopia per esempio. Altri sono casi di forte instabilità con una diffusa presenza di terrorismo interno o di repressione delle rivolte (o entrambe le cose): Mali, Burkina Faso, in generale l’intera area Saheliana, oltre a Myanmar, Madagascar e Filippine. Altri rappresentano conflitti che non riterremmo tali, come Colombia o Messico dove la lotta che coinvolge i Cartelli della droga tra di loro e contro il governo centrale assume effettivamente caratteristiche (armamenti, violenza, destabilizzazione dello stato…) di guerra e non di semplice criminalità.
Se a questi aggiungessimo anche elementi come rivolte e proteste di stampo sociale, il panorama sarebbe più cupo e comprenderebbe anche parte dell’Europa.
Al di là dei dettagli – a volte la classificazione di ACLED dei singoli eventi è discutibile - da qualunque lato la si guardi l’umanità è, come minimo, altamente inquieta. È quella che papa Francesco nel 2014 definì «la terza Guerra Mondiale a pezzi»: un mondo che non è più diviso in due grandi schieramenti che si fronteggiano, come durante la Guerra Fredda, ma dove conflitti e instabilità sono comunque diffusi.

 Troppe guerre

Bisogna resistere alla tentazione di credere che tale situazione sia frutto di chissà quale singolo gruppo umano che, da dietro le quinte, guida i destini di tutti: “poteri forti” (termine vago e senza significato, ma di facile presa mediatica) o lobby potentissime. Non è così. Gruppi di interesse esistono ovunque, ma essi sfruttano le dinamiche già esistenti più che crearle. La responsabilità va piuttosto ricercata nell’incrociarsi di dinamiche sociali, politiche, climatiche, economiche, demografiche che spesso si rafforzano e peggiorano a vicenda, creando spirali negative che i governi locali e le organizzazioni internazionali non riescono o non vogliono affrontare.
A volte, come nel caso della guerra in Ucraina, è soprattutto un problema di “visione del mondo”: se, come il Presidente russo Vladimir Putin, credo che il mondo sia solo una torta da spartire tra pochi, allora crederò anche che la mia fetta, se mi viene negata, io possa prenderla con la forza. Ma che succede se la torta in realtà è un popolo desideroso di scegliere il proprio cammino liberamente? Non è l’unico caso.
Altrove, nel Sahel, i cambiamenti climatici provocano conflitti tra tribù di allevatori e di coltivatori per il possesso dei territori fertili: un’area infatti può essere coltivata o dedicata all’allevamento, non entrambe le cose (gli animali calpesterebbero e mangerebbero i raccolti) e spesso la competizione sfoga in violenza. I governi stessi poi non hanno sufficiente forza per imporre la pace, quindi usano le tribù alleate per reprimere la rivolta, innescando però una spirale di vendette, lotte intestine e di delegittimazione della stessa autorità (vista come parte del problema). Questo a sua volta gioca sulle differenze religiose: alcune tribù sono musulmane, altre cristiane e il conflitto – in partenza non religioso – crea terreno fertile per la radicalizzazione e, in alcuni casi, il terrorismo. A quel punto i governi locali tendono a perdere il controllo del conflitto, che si allarga e porta a ulteriori violenze e, spesso, ulteriori scelte errate per risolverlo.
In altre zone la spartizione del potere su base tribale è fonte di divisione interna agli stati stessi, fino a portare a guerre civili sanguinose: l’Etiopia ne è un esempio. Se le responsabilità dei governanti sono chiare, al tempo stesso essi possono contare su popolazioni che preferiscono fare affidamento su leader scelti su base etnica o tribale più che a quelli volti a costruire un bene comune per la popolazione intera.

 Tante cause

Uscendo dall’Africa, la lunga lotta al narcotraffico in America Latina ha per esempio portato a una situazione critica in Colombia, caso raro dove un accordo di pace ottenuto con difficoltà e determinazione dall’allora Presidente Santos è stato bocciato non dai leader ma da una popolazione maggiormente desiderosa di vendetta. Reintegrare gli ex-combattenti delle FARC nella società civile è dunque risultato di fatto impossibile e la spirale di violenza è ripresa.
In Iran, la protesta di donne e giovani per un allentamento delle restrizioni di natura religiosa si scontra invece con un regime teocratico che si affida sempre più alle proprie forze di sicurezza per mantenere il potere. Il regime non è mai riuscito a offrire alla popolazione quel benessere che aveva promesso con la rivoluzione del 1979 e ora non riesce più a convincere le nuove generazioni che è solo colpa degli usuali nemici (Israele e USA) se la situazione non migliora: i ragazzi e le ragazze chiedono un cambiamento interno, al quale gli Ayatollah rispondono paradossalmente con gli stessi mezzi che usava lo Shah.
Ci sarebbero altri esempi: ogni caso e situazione locale o regionale possiede caratteristiche proprie. Non è solo un problema economico, di sfruttamento di una parte del mondo verso l’altra: ci sono risentimenti locali, spartizioni del potere e voglia di mantenerlo a tutti i costi, nuove generazioni in cerca di futuro e vecchie generazioni gelose di cederlo. Sono le difficoltà di base a inasprirsi fino a rendere il terreno fertile per il conflitto: chi le sfrutta non ce la farebbe se già non esistessero. E non è colpa solo dei “soliti noti”.

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a cura dell’Associazione Culturale “Il Caffè Geopolitico”