Il Santo poliglotta

La pace francescana è imparare a parlare la lingua dell’altro

 di Dino Dozzi
Direttore di MC

 Nella seconda lettera ai Corinzi Paolo scrive un invito che fa pensare: «Vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi» (13,11).

Non è facile vedere Dio, anzi nessuno mai ha visto Dio (cfr. Gv 1,18). Ma c’è un luogo e un momento in cui Dio è visibile: quando viviamo in pace tra noi. Diventa allora comprensibile quella frase che può apparire scioccante: se voglio parlare a qualcuno di Dio, non devo parlargli di Dio, ma della pace che abbiamo tra noi.
Ovviamente, se c’è questa pace tra noi. Perché siamo tutti diversi e vivere in pace significa riconoscere e rispettare le nostre diversità. Cosa non facilissima. La pace è la convivenza rispettosa con tutti nell’alterità. È quella convivialità delle differenze di cui parlava mons. Tonino Bello. Dio, il grande Altro, mi guarda tramite gli occhi dell’altro, ha scritto Emmanuel Lévinas. Ci domandiamo: come Francesco dice la pace e quale strategia propone per raggiungerla?

 Parlare per amare

Per dire e costruire la pace, Francesco si pone all’ultimo posto, parlando la lingua dell’altro, con umiltà e rispetto: «Mai dobbiamo desiderare di essere sopra gli altri, ma anzi dobbiamo essere servi e soggetti ad ogni umana creatura per amore di Dio» (FF 199). Questo vale in comunità dove i fratelli dovranno «volentieri servirsi e obbedirsi a vicenda» (FF 20), come pure in missione tra gli infedeli, dove il primo modo di evangelizzare sarà «che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio» (FF 43).
Per il suo dialogo a trecentosessanta gradi Francesco sceglie la lingua dell’altro, tortora o lupo, cristiano o musulmano. Tale scelta si esprime concretamente nel sentirsi e mostrarsi fratello minore, senza giudicare l’altro, chiunque sia e comunque si comporti. In quella pagina dei Fioretti che racconta del lupo di Gubbio (FF 1852), colpisce la capacità di Francesco di parlare la lingua dell’altro, non solo nel senso che riesce a parlare con il lupo, ma soprattutto perché agli abitanti di Gubbio egli parla la lingua del lupo e della sua fame, e al lupo parla la lingua degli abitanti di Gubbio e della loro paura. È questa capacità di parlare la lingua dell’altro il “santissimo miracolo” che renderà possibile il dialogo e il patto di amicizia tra quella gente e il lupo.
Parlare la lingua dell’altro è ciò che permette a Francesco di convertire i ladri di Monte Casale. Aveva certo la sua lingua, fatta di buone ragioni, frate Agnolo, guardiano di quel convento, che aveva cacciato via i tre riprendendoli aspramente. Francesco, saputo l’accaduto, fortemente riprese quel guardiano, parlandogli la lingua dei ladri, della loro fame e della loro emarginazione, e mandandolo quindi a cercarli per scusarsi, portare loro pane e vino, e invitarli al convento. Ed essi vennero, ascoltarono la lingua dell’accoglienza fraterna di Francesco e l’impararono tanto bene che si fecero frati (FF 1858).
È questa capacità di rivolgersi all’altro nella sua lingua che permetterà a Francesco di parlare alle rondini (FF 1846) e alle tortore (FF 1853), al vescovo e al podestà di Assisi che non si intendevano più (FF 1800), ai vari partiti bolognesi in lotta tra loro quel 15 agosto 1222 in piazza Maggiore (FF 2252) e al sultano d’Egitto (FF 2212). Per Francesco, il linguaggio per dire e costruire la pace passa attraverso la rivoluzione della minorità e l’assunzione della lingua dell’altro.

 Potere e verità

Per questo scavalcò tante mura: quelle che tenevano fisicamente esclusi i lebbrosi, quelle che tenevano moralmente esclusi i briganti, quelle che tenevano spiritualmente esclusi gli infedeli. Per incontrare i lebbrosi, Francesco andò al di là delle mura di Assisi, giù nella pianura; per incontrare i banditi andò più lontano, nella foresta; per incontrare i musulmani andò al di là del mare e della cristianità. Usando sempre e con tutti quella “cortesia” che è un attributo di Dio.Ad Assisi, nel 1986, il Papa, circondato da tanti altri capi religiosi, così introdusse una delle giornate più importanti del secondo millennio: «Ho scelto Assisi come luogo della nostra giornata di preghiera per la pace per il significato particolare dell’uomo santo venerato qui, san Francesco, conosciuto e rispettato da tante persone nel mondo intero come un simbolo di pace, di riconciliazione e di fraternità». Iniziava lo spirito di Assisi. Veniva ripreso il linguaggio di Francesco per dire e costruire la pace.
Due sono gli ostacoli principali alla pace: il potere e la verità. O, meglio, un certo modo di intendere il potere e la verità. Incominciamo dal potere, che ha molti volti e che è la causa di molte guerre. Il sogno originario di Francesco è che «i frati non abbiano alcun potere o dominio soprattutto fra di loro… anzi per carità di spirito volentieri servano e si obbediscano vicendevolmente» (FF 19). Ma anche lui deve presto rassegnarsi a mettere dei responsabili. Il potere è un male necessario. Il problema vero non è il potere in se stesso, ma il modo di esercitarlo. Francesco dice che il potere è servizio, va esercitato con rispetto, con umiltà, come lavando i piedi agli altri (FF 152). E mai pensando che il ruolo ricoperto renda più grandi perché «l’uomo quanto vale davanti a Dio, tanto vale e non più» (FF 169). Non fa problema che i frati lavorino presso altri, ma Francesco raccomanda loro di essere «minori e sottomessi a tutti coloro che sono in quella stessa casa» (FF 24).

 Resto con voi

In quella pagina straordinaria della “vera letizia” Francesco parla di ciò che conta davvero nella vita, di ciò che ti può rendere felice. Nella prima parte dice con tutta chiarezza che né il potere della cultura («tutti i maestri di Parigi sono entrati nell’Ordine»), né il potere ecclesiastico («sono entrati nell’Ordine tutti i prelati d’Oltr’Alpe, arcivescovi e vescovi»), né il potere politico (sono entrati nell’Ordine «perfino il re di Francia e il re d’Inghilterra») e neppure il potere evangelico («i miei frati hanno convertito tutti alla fede… e io posso far molti miracoli») contano davvero. Il giudizio di Francesco è netto: in nessun tipo di potere «è vera letizia».
La vera letizia è da lui individuata nel restarsene serenamente di fronte alla porta chiusa del convento dove sono i suoi frati che per tre volte gli dicono «Vattene!» e aggiungono motivi sempre più “cattivi” per il loro rifiuto: è tardi, sei ormai inutile, sei di peso! Sono parole terribili rivolte al loro Fondatore. È la porta simbolica degli altri che resta chiusa, è la porta dell’accettazione, della stima, del rispetto, dell’amore. Accettare serenamente la perdita di ogni potere: «qui è vera letizia». Ciò che conta davvero nella vita e la rende felice non è il potere - pure necessario e da esercitare come servizio - ma l’amore nell’assoluta gratuità.
E veniamo alla verità. I due anni di grave tentazione di Francesco furono superati alla Verna. Era una tentazione sulla verità del modo francescano di vivere il Vangelo. I frati incominciano a pensarla diversamente da Francesco e Francesco ha la tentazione di separarsi da loro. Il Francesco che scese dalla Verna era riconciliato, in pace, con se stesso e con i suoi frati: non aveva accettato il loro punto di vista (che difenderà con forza nel Testamento), ma aveva preferito i suoi fratelli alla fuga solitaria verso la perfezione. La verità più vera è quella di camminare con i propri fratelli, pur non condividendone qualche idea. Quante divisioni e quante guerre sono nate in nome della verità! La verità più vera è la pace. Il potere più grande è l’amore. Ecco la ricetta francescana per la pace.