Bene ma non benessere

La pace di Gesù non è una prosperità individuale, ma un amore vissuto e offerto

 di Giuseppe De Carlo
della Redazione di MC

 Il termine “pace” (shalòm in ebraico; eirène in greco) ricorre nella Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, circa 350 volte ed è presente dal primo libro, la Genesi, all’ultimo, l’Apocalisse. È dunque un termine caratterizzante l’annuncio biblico.

Tuttavia, il messaggio veicolato non segue una scansione lineare: tra l’Antico e il Nuovo Testamento c’è una cesura piuttosto netta. Lo lascia intendere Gesù stesso quando dice parole alquanto enigmatiche ad un primo ascolto: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra (...) ma spada» (Mt 10,34); «ma divisione» (Lc 12,51); «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo» (Gv 14,27). Troppo spesso si sorvola su queste parole ritenendo che siano un modo paradossale usato da Gesù per sottolineare la novità evangelica. Ma è forse proprio questo che deve attirare la nostra attenzione: novità evangelica rispetto a cosa? Rispetto a una mentalità generica o piuttosto rispetto ad una precisa convinzione dei suoi ascoltatori? Gesù parla a persone che fanno riferimento alla Torah, alla Scrittura dell’Antico Testamento. Il loro convincimento proviene da ciò che hanno appreso dalle antiche sacre Scritture. Gesù vuole far capire che il suo annuncio di pace non corrisponde alla concezione che di essa hanno i suoi interlocutori. 

Shalom è stare bene

È necessario perciò conoscere il messaggio circa la pace contenuto nell’Antico Testamento. Un autorevole biblista, Gerhard von Rad, analizzando il termine shalòm, scrive: «È difficile trovare nell’Antico Testamento un altro concetto così trito e comune nella vita quotidiana, e tuttavia non di rado carico di pregnante contenuto religioso e capace di elevarsi al di sopra del piano delle immagini comuni, come shalòm». Si tratta dunque di un termine dal significato allo stesso tempo pregnante e ambiguo. Il contenuto religioso pregnante dello shalòm è sintetizzato nelle parole - riprese anche da Francesco d’Assisi - con cui Mosè benedice gli Israeliti: «Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace» (Num 6,24-26).
La pace è dunque frutto della benedizione di Dio, che prevede per il suo popolo il godimento di ogni dono divino che assicura una vita pienamente realizzata. Un godimento che deve concretizzarsi nel corso della vita terrena, perché negli scritti anticotestamentari - a parte pochi accenni nei testi più recenti - non c’è ancora la prospettiva della vita ultraterrena. Il giusto israelita che teme Dio e sta lontano dal male ottiene la benedizione divina in questa vita. Benedizione che si manifesta nell’abbondanza di discendenza e di beni materiali, nella buona fama, nella salute e nella longevità. Il giusto muore «vecchio e sazio di giorni». In una parola lo shalòm nell’Antico Testamento viene a coincidere con il benessere materiale. Tutto questo è ben descritto dalla cornice narrativa che inquadra l’intero libro di Giobbe: «Viveva nella terra di Us un uomo chiamato Giobbe, integro e retto, timorato di Dio e lontano dal male. Gli erano nati sette figli e tre figlie; possedeva settemila pecore e tremila cammelli, cinquecento paia di buoi e cinquecento asine, e una servitù molto numerosa. Quest’uomo era il più grande fra tutti i figli d’oriente ... Dopo tutto questo, Giobbe visse ancora centoquarant’anni e vide figli e nipoti per quattro generazioni. Poi Giobbe morì, vecchio e sazio di giorni» (Gb 1,1-3; 42,16-17).

 Para bellum

Il dono della pace inteso come benessere non implica l’assenza di conflitti e di guerre, anzi avviene il contrario. Il benessere personale, del clan o dell’intera comunità va difeso da chiunque lo minacci. L’orante del Salmo 144 arriva a dire: «Benedetto il Signore, mia roccia, che addestra le mie mani alla guerra, le mie dita alla battaglia». Viene da pensare che si segua la stessa logica del «Si vis pacem para bellum (Se vuoi la pace prepara la guerra)» dei Romani, a cui il libro della Sapienza rimprovera «non fu loro sufficiente errare nella conoscenza di Dio, ma, vivendo nella grande guerra dell’ignoranza, a mali tanto grandi danno il nome di pace» (Sap 14,22). La mancanza di una prospettiva ultraterrena costringeva l’antico popolo dell’alleanza a desiderare in questa vita il pieno godimento della benedizione divina. Rischiando così di essere presi dalla bramosia del proprio benessere da difendere ad ogni costo e di trascurare valori importanti come quelli della solidarietà e della fratellanza.
Si evince perciò l’ambiguità del concetto di pace che, se come verità di fede veniva elaborato con contorni chiari, nella concretezza della vita quotidiana veniva percepito come un sogno che si sarebbe realizzato in un futuro ideale. Il profeta Isaia espone questa attesa nel magnifico poema della pacificazione universale: «Il lupo dimorerà insieme con l’agnello; il leopardo si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un piccolo fanciullo li guiderà. La mucca e l’orsa pascoleranno insieme; i loro piccoli si sdraieranno insieme. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca della vipera; il bambino metterà la mano nel covo del serpente velenoso» (Is 11,6-8).

 La novità evangelica

Gesù viene in mezzo all’umanità come «principe della pace». Alla sua nascita gli angeli proclamano ai pastori di Betlemme: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama» (Lc 2,14); il Risorto agli apostoli impauriti augura «Pace a voi!» (Gv 20,19-20). Ma appare chiaramente dalla sua vita e dalle sue parole che la pace non ha niente a che fare con il benessere. È vero il contrario: la rinuncia ai beni terreni è la condizione necessaria per la pace, prospettata da Gesù come un dono ultramondano, un «tesoro nei cieli». Tesoro che può essere anticipato sulla terra se si sceglie di fondare la vita sulla relazione con il Padre celeste, così da dar vita ad una nuova famiglia, quella dei «figli di Dio».
La novità portata da Gesù è che la pace esige l’impegno a privilegiare la relazione con il Padre e con i fratelli, relazione da viversi nella dinamica dell’amore come agàpe, amore gratuito, disinteressato, che mette l’altro al primo posto, amore come servizio. Gesù ha vissuto pienamente quello che ha insegnato: «Vi ho dato l’esempio perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,15). La pace è dunque “da farsi”, è un dono e un impegno. Nelle Beatitudini enunciate da Gesù nel Discorso della Montagna è ai «facitori» di pace che viene promesso di essere chiamati «figli di Dio»: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,5,9). Ed è nel contesto del Discorso della Montagna - che richiama la proclamazione della Torah da parte di Mosè sul Monte Sinai - che appare chiaramente la novità evangelica che la pace si anticipa nella vita presente se si vivono le esigenze radicali che permettono di comportarsi da «figli di Dio» nella relazione con il Padre, con i fratelli e con le realtà terrene.