L’amore in un caffè

L’esperienza di una coppia che ha scelto di fare della propria famiglia una comunità

 di Silvia Carusi e Enea Amaducci
membri della Comunità Papa Giovanni XXIII

 Siamo Enea e Silvia, una giovane coppia di sposi che, da circa due anni, ha deciso di far parte della Comunità Papa Giovanni XXIII,

un’associazione fondata nel 1968 dal sacerdote don Oreste Benzi e che basa la sua vocazione sulla condivisione diretta della propria vita con l’ultimo e la rimozione delle cause di ingiustizia e disuguaglianza nel mondo. Attualmente esistono più di 500 realtà di condivisione tra case famiglia, mense per i poveri, centri di accoglienza, comunità terapeutiche, Capanne di Betlemme per i senzatetto, famiglie aperte e case di preghiera. Tutte queste realtà sono accomunate dalla volontà di creare un clima familiare in cui chi è accolto -  tossicodipendenti, persone agli arresti domiciliari, senza fissa dimora, bambini con disabilità, anziani altrimenti soli – si senta protagonista, parte di una comunità e non più scarto di essa. Don Oreste Benzi sottolineava che «attraverso il profeta Isaia, Dio ci dice: “Dividi il tuo pane con l'affamato”». In altre parole: quello che è nel tuo piatto, mettilo nel piatto vuoto del tuo fratello.

 In principio la condivisione

Noi la Comunità Papa Giovanni XXIII l’abbiamo conosciuta nel 2015, quando Enea, allora studente all’Università di Bologna, ha vissuto per circa un anno nella canonica affidata a un sacerdote della Papa Giovanni XXIII, don Mario Zacchini, insieme a persone provenienti da tutto il mondo che hanno deciso di fare un’esperienza di condivisione. Di quell’esperienza portiamo con noi la ricchezza di una tavola imbandita di umanità, in cui il cibo diventa strumento di fraternità, accoglienza, conoscenza. Don Mario richiamava, quando tutti i posti a tavola erano occupati, ad aggiungerne subito un altro, “il posto di Gesù”, di colui che può arrivare da un momento all’altro a bussare alla nostra porta e deve trovare un posto riservato per lui.
Terminata questa esperienza, abbiamo cominciato a ricercare altre esperienze di condivisione: dalla casa della pace di Faenza, una struttura della APG23 in cui caschi bianchi ritornati dalle loro esperienze all’estero vivevano con profughi da poco arrivati in Italia, all’esperienza di Arte Migrante, che tuttora portiamo avanti, incontri settimanali in cui ci si siede in cerchio dando spazio a ognuno per raccontare una storia, cantare o ballare e soprattutto essere ascoltato. Dal 2017 ci siamo trasferiti a Parma per motivi di lavoro e l’anno successivo siamo andati a vivere come coppia in una struttura dell’Ass. San Cristoforo ONLUS che accoglieva ragazzi agli arresti domiciliari, provenienti da comunità di recupero e profughi in prima accoglienza.
Qui abbiamo vissuto per due anni e abbiamo condiviso momenti di gioia e allegria ma anche momenti di tensione con le persone accolte; questo ci ha dato l’opportunità di entrare in contatto con la fragilità, radicata e sofferta, di alcuni ragazzi con vissuti alle spalle che pesano come pietre. Ti rendi conto così che il luogo e la famiglia in cui nasci sono determinanti per la costruzione della tua persona e se noi siamo stati fortunati, perché ci è stato donato un piccolo bel pezzo di mondo, altri invece hanno vissuto emozioni ed esperienze negative, fin da quando erano piccoli. Come possiamo rimanere indifferenti? Abbiamo passato ore a bere caffé o a stare seduti sulla panchina del condominio o sul muretto, ad ascoltare le storie più varie.

 Sperimentare l’amore

Ad esempio come J., un ragazzo arrivato in Italia da bambino e che, non sentendosi accolto dalla famiglia adottiva, ha preferito vivere per strada dall’età di 15 anni alternandola a periodi in carcere per piccoli reati. Quando l’abbiamo conosciuto, era una persona che faticava ad uscire dal modo di relazionarsi tipico della strada: un po’ burbero, diffidente, poco affabile e talvolta aggressivo. Con la scusa di un caffé insieme, una cena a casa, una chiacchierata, ci siamo presi tempo per conoscerlo. Questo, insieme alla sua volontà di aprirsi e raccontarsi piano piano, ci ha fatto scoprire come dietro i suoi modi di fare c’era una persona, con tante fragilità e paure che cercava una possibilità di crearsi una vita normale, mai sperimentata prima.
Chi non ha mai vissuto in una famiglia o trovato chi gli dona amore, lo desidera molto ma non lo conosce e tutto ciò che non conosciamo, in fondo, per quanto bello, ci spaventa. È così che, accompagnato da noi e da tante altre persone preziose, ormai trentenne, sta riprendendo in mano la sua vita. Quando ti senti amato e percepisci che per le altre persone hai un valore, che ci tengono a te, allora anche tu inizi a dar valore a te stesso, ad avere più fiducia e più coraggio.
J e tutte le persone con cui abbiamo condiviso questo periodo ci hanno permesso di riscoprire la bellezza della quotidianità e hanno alimentato ogni giorno il nostro percorso di fede. In questi anni abbiamo scoperto come il prossimo, specialmente l’ultimo e l’emarginato, sia il mezzo con cui il Signore ogni giorno si manifesta, ci ricorda che siamo amati anche nelle piccole cose che facciamo e ci chiede di convertirci. Come ad esempio un ragazzo, con cui non viviamo più da alcuni anni, che ancora oggi ci porta le verdure che avanzano in associazione ed è sempre il primo ad offrirsi di prendersi cura di casa nostra quando non ci siamo. Per noi queste piccole attenzioni sono una testimonianza sincera di affetto.

 Sporcarsi le mani

Lo stare a contatto con chi non ha una famiglia, non ha casa, con chi fugge dal proprio paese ci ricorda però anche l’ingiustizia che caratterizza la nostra società. Per questo, secondo don Oreste, non è sufficiente «mettere la spalla sotto la croce di chi soffre», ma è fondamentale anche «dire a chi fabbrica le croci di smetterla». Questo fa sì che l’incontro con l’altro ci riporti sempre nel concreto della nostra realtà e ci stimoli a non soffermarci nel nostro piccolo io, ma ad aprire lo sguardo su ciò che accade nel mondo, invitandoci a cambiarlo in modo tale da rimuovere quell’ingiustizia di cui gli ultimi sono vittima. Noi, nel nostro piccolo, cerchiamo di attuare scelte quotidiane attente, dalla spesa a minor impatto socio-ambientale a chi gestisce le nostre finanze. Inoltre ci stiamo impegnando nella politica locale, collaborando con altre associazioni con cui abbiamo chiesto l’istituzione dell’Assessorato alla Pace.
Il vivere queste esperienze ed il prendere sempre di più coscienza del bisogno di confrontarci con i fratelli per proseguire il nostro percorso di fede ci ha portato nel 2019 a iniziare il periodo di verifica vocazionale nella Papa Giovanni XXIII, un periodo di discernimento e approfondimento della vocazione specifica della comunità, vissuto ancor più intensamente durante la quarantena dovuta alla pandemia, e nel 2020 a scegliere di entrare nella Comunità. In essa abbiamo visto una famiglia che condivide non tanto il nostro stesso modo di vedere il mondo quanto i nostri bisogni spirituali e l’aspetto con cui Dio si mostra nella nostra vita.
«Di fronte al rischio di limitarci a rimanere seduti davanti a uno schermo con le mani su una tastiera - dice Papa Francesco - l’avere una Comunità e dei fratelli che ci invitano a smuoverci per quel che succede nel mondo, a sporcarci le mani per fare del bene, a rinunciare a tante abitudini e comodità per aprirci alle novità di Dio, che si trovano nell’umiltà del servizio, nel coraggio di prendersi cura» è un grande dono.