Fa un miliardo, persone incluse

Includere non è accettare la disabilità, ma darle un valore 

di Barbara Bonfiglioli
della Redazione di MC

 Parole come disagio e disabilità, abbinate a persona, richiamano alla mente un concetto, “inclusione”, ed un nome, Andrea Canevaro, studioso di fama internazionale, considerato il padre della pedagogia speciale, morto il 26 maggio 2022.

Chi ha avuto modo di conoscerlo lo ha apprezzato quale uomo semplice, che sapeva raggiungere tutti, accompagnandoli nei momenti difficili, ma senza sostituirsi a loro. I suoi studi pongono al centro la persona e producono echi di “buona notizia”. In una delle sue ultime interviste esortò chi lavorava negli ambiti dell’inclusione a «vedere negli altri quel valore che non abbiamo, e, delicatamente ma decisamente, intrecciare i nostri rispettivi valori». Ma cos’è l’inclusione? Qual è questo “valore”? L’inclusione è più che un semplice coinvolgimento di elementi diversi, orienta il senso del tutto: si tratta di pensare non come il gruppo in cui è inserita la persona con disabilità debba “ospitarla”, ma come questa presenza orienti e modifichi il valore stesso dell’intero gruppo.

Una società dicotomica

Viviamo in una società fondata su una logica dicotomica “dentro/fuori”, “ricco/povero”, “sani/malati”, “sagrestia/periferia”, “successo/insuccesso”, che come conseguenza porta a domandarsi a quale parte appartengo. Questo approccio - sottolinea Canevaro - innesca un sillogismo associativo automatico, che contrappone “ricco-vincente-cattolico-sano-successo-bello”… insomma: valido a “povero-perdente-musulmano-malato-insuccesso-brutto”… insomma: invalido. Si parte da un anello ed automaticamente seguono gli altri, indipendentemente dalla reale corrispondenza con il soggetto. Ad esempio, il singolo soggetto utilizza il termine ‘cattolico’ per indicare l’intera catena in cui questo anello è, indipendentemente dalla propria convinzione. Raggiungere la posizione “di successo” vale qualsiasi prezzo da pagare, perché raggiungere quel certo anello avrà come premio tutta la catena del “dentro”. L’automatismo è pericoloso perchè inibisce la riflessione e il senso di colpa (tutto avviene come fenomeno naturale o comunque voluto da altri).
Anche la disabilità cade in una visione dicotomica “selettività/pietismo”: la prima permette di esibire la differenza in modo identitario (ma che diventa un macigno per chi non ce la fa); la seconda difende, tiene a distanza chi consideriamo al massimo degno della nostra pietà (si esagera nei gesti altruistici, si è convinti di compiere una missione di salvezza). Si può superare tale dicotomia - ricorda Canevaro - passando a una logica plurale che consente di valorizzare tutte le persone (anche quelle con disabilità). L’inclusione così diventa sinonimo di appartenenza a qualcosa, di accoglienza; diventa un modo di vivere insieme, basato sulla convinzione che ogni individuo ha valore e appartiene alla comunità. Includere non è, quindi, “fare spazio a” qualcuno, ma comprendere noi stessi e l’intera società “a partire da” qualcuno. Purtroppo però nella vita di ogni giorno si ragiona per gruppi omogenei costituiti da individui valutati “validi” (da chi? Non si sa) e da “gli altri”, i “non-validi”, esclusi o costretti a vivere “protetti” dai validi. È il rigore selettivo che una certa politica urlata alimenta e per cui preferisce usare il termine “meritocratico”, più politicamente corretto.

 Cercare una terza via

Contro questa visione, Canevaro con decisione propone un’altra logica, quella dell’“empowerment”: parla della possibilità di incrementare le capacità di auto-organizzazione dell’individuo, costruendola sulla sua individualità originale ed alimentando la responsabilità sociale. Il genere umano, del resto, si distingue per essere l’unica specie capace di prendersi cura della vita. Gli esseri umani rimangono tali se stanno con la gente, se ne occupano, si sostengono. Nel lockdown si è sperimentato il vuoto delle relazioni impedite, senza le quali la nostra vita pareva avere un valore sminuito. Questa idea si ritrova nei racconti di Genesi: il “limite” (e la differenza) della creatura umana non è rivelato solo come problema, ma anche come occasione di apertura e relazione. La storia ci riporta le forme diverse di sostegno “inventate” dagli esseri umani per permettere a tutti, non solo di sopravvivere, ma di realizzarsi, di sviluppare i propri talenti, fosse anche solo uno, a favore della comunità in cui vivevano.
Sono aspetti che si trovano anche nel documento scientifico dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che va sotto la sigla ICF, cioè la Classificazione Internazionale del Funzionamento della Disabilità e della Salute (2002), sottoscritto anche dall’Italia. La logica dell’ICF vuole una decostruzione della situazione di disabilità, evitando di chiuderla nell’ottica deformante della categoria, per ridare ad ognuno la dignità di persona, unica. La categorizzazione causa la perdita di identità originale per assumere quella di categoria, con due rischi: l’identificazione nel proprio deficit (che conduce all’emarginazione); e quello opposto di identificarsi con i privilegi attribuiti a quel deficit (che conduce all’assistenzialismo). Siamo di nuovo caduti in una logica dicotomica da cui - dice Canevaro - si può uscire con il concetto di “coevoluzione”. È uno dei punti nodali dell’inclusione, perché lega gli apprendimenti e la vita. 

Con la rabbia e col coraggio

La coevoluzione opera una piccola rivoluzione: non più una dinamica di chi ha bisogni speciali in movimento verso chi ha bisogni normali, ma chi ha bisogni normali può trovare risposte se prende sul serio chi ha bisogni speciali. Le richieste che ne scaturiscono divengono così precise perchè non ignorano il deficit, leggono il contesto, eliminano barriere e favoriscono quegli elementi che garantiscono a tutti di autodeterminarsi, scegliere liberamente e di partecipare attivamente alla comunità in cui sono inseriti. Altre due prospettive importanti dell’ICF sono: gli imprevisti, che esistono e verso cui occorre dotarsi di proprie strategie per accoglierli, e le relazioni di aiuto, necessarie per vivere, che non devono essere dominanti sull’altro, ma responsabili. Essere responsabili significa sentire la propria appartenenza a una comunità ed oggi tutti viviamo drammaticamente la difficoltà di sentirci “parte di”. È la conseguenza dello stile di vita basato sul consumismo.
Consumare non vuol dire “essere parte di”. Per esserlo, bisogna osservare, studiare, conoscere, rispettare. Il paradosso è che le barriere architettoniche e culturali sono dilagate proprio con il consumismo: il consumatore è intollerante nei confronti di chi rappresenta un limite per il modello consumistico. La presenza di una persona con deficit è dilaniante perchè svela due pilastri del consumismo (farsi esclusivamente gli affari propri; ognuno merita la sorte che trova). Per prendersi cura di questa ferita c’è bisogno di entusiasmo, di generosità, ma anche di coraggio, di indignazione e impegno. Bisogna credere nel cambiamento, essere creativi e pieni di speranza. Sant’Agostino sostiene che la speranza ha due bei figli: la rabbia e il coraggio. La rabbia nel vedere come vanno le cose e il coraggio di intravedere come cambiarle: quindi contesto (con-te-sto) e con-te-stiamo.