La santità dei panni sporchi

Nelle parole di Christian Bobin, un Dio piccolo e infinitamente vicino 

di Stefano Nava
artista e scrittore

 Forse abbiamo dimenticato l’uomo. Ci siamo scordati le persone.

Abbiamo smarrito la terra, i tocchi, gli abbracci, gli odori. La puzza di Dio annidata nell’umano ci è sfuggita di mano, non riusciamo più a sentirla, pare evaporata via, sembra volata in alto. Non sempre, ma a volte sì. Stiamo a fissare il cielo, come in quel fazzoletto di mondo, duemila anni fa. E proprio come allora, come in quel principio di minuscola comunità, qualcuno potrebbe venire a sussurrarci: “Perché state a guardare il cielo?” (At 1,11). Non basta alzare gli occhi: per dare vita ad un impasto di fraternità occorre imparare ad abbassare lo sguardo, non per falsa umiltà ma per ravvivata e concreta quotidianità. A volte rischiamo la miopia di Dio per troppa poca umanità.

 Nelle fatiche umane

«Non c’è santità più grande di quella delle madri sfinite per i panni da lavare, la pappa da scaldare, il bagno da preparare. Gli uomini reggono il mondo. Le madri reggono l’eterno, che regge il mondo e gli uomini»: parole basse che contengono frammenti d’infinito. Parole, quelle di Christian Bobin, che trascinano letteralmente il cielo qui, accanto a noi: a portata di mano. Lui, Bobin, che ha imparato ad abitare quel cielo da pochi mesi, ci ha lasciato un’eredità solida e concreta riguardo a Dio: uno che non fa finta di esserci, nascosto tra nubi troppo alte: c’è! Lo puoi trovare nelle delicate fatiche umane, quelle di madri premurose e lavandaie, che sorreggono il mondo e tanto altro. In fondo l’autore francese ha sempre provato a dipingere l’umanità di Dio, tratteggiando e avvicinando l’uomo di Nazareth a ciascuno di noi: «Lui parla solo della vita, con parole a lei proprie: coglie dei pezzi di terra, li raduna nella sua parola e il cielo appare, un cielo con alberi che volano, agnelli che danzano e pesci che ardono, un cielo impraticabile, popolato di prostitute, di folli e di festaioli, di bambini che scoppiano in risate e di donne che non tornano più a casa: tutto un mondo dimenticato dal mondo e festeggiato là, subito, adesso, sulla terra come in cielo».
E allora perché non provare a farlo apparire questo cielo proprio qui, in mezzo a noi? Non è impresa facile ma le parole di questo autore, e forse di Dio stesso, in quel capolavoro scritto a più mani, ci invitano a non idealizzare il regno ma a renderlo reale, concreto, palpabile. C’è un mondo dimenticato dal mondo che pare ci parli proprio di questo regno tratteggiato e narrato da colui che Bobin definisce l’uomo in cammino: il nazareno. Perché ciò che emerge da questi scritti e che, in fondo, ci fa più problema oggi è proprio questo: che l’infinito si possa cogliere nell’infinitamente piccolo, che l’immenso possa manifestarsi nel dettaglio, che l’amore possa dirsi attraverso i giorni, i luoghi e i volti di tutta la nostra imperfetta quotidianità. Si, è più facile e ci viene più spontaneo pensare che in un uomo si sia manifestato Dio; più complicato e mostruosamente blasfemo potere riconoscere il contrario: che Dio si sia narrato attraverso le vicende di un uomo.

 Come un passero

Spesso succede che si parta da definizioni teoriche e retoriche a cui applicare righe e righe di spiegazioni affinché i teoremi possano tornare e i problemi si possano dimostrare. Che Dio, ad esempio, abbia inviato suo figlio per salvare il mondo: salvarlo attraverso una missione già pensata e meticolosamente programmata. No, qualcosa non torna, non si parte dal cielo, da progetti e pensieri astratti per dimostrare la terra. L’uomo che cammina ci indica che si parte dall’uomo per srotolare cielo e terra davanti ai nostri occhi. Si parte da dio, scritto con la “d” minuscola. Un dio che si sporca, che solleva granelli di polvere, che grida, che piange e si mostra debole. Uno che «percorre l’intero registro dell’umano, l’ampia gamma emotiva, così radicalmente uomo da raggiungere dio attraverso le radici». Scovare le sue incertezze, le sue paure, il suo percorso antropologico; i frammenti di fragilità e di mancanza dicono molto di quel padre che a volte immaginiamo immobile, distante e giudicante. Là, sperduto in qualche angolo di cielo. «Dio immenso non può stare che nei ritornelli dell’infanzia, nel sangue sprecato dei poveri o nella voce dei semplici, e tutti questi tengono Dio nel cavo delle loro mani aperte, un passero inzuppato come pane dalla pioggia, un passero intirizzito, stridulo, un Dio pigolante che viene a mangiare nelle loro mani nude. Dio è ciò che sanno i bambini, non gli adulti. Un adulto non ha tempo da perdere a nutrire i passeri».
Riconoscerlo allora non significa relegarlo in un mondo perfetto e lontano, distante più di duemila anni. Riconoscerlo significa lasciarsi sorprendere come bimbi, non classificarlo dentro categorie o liturgie impostate e preconfezionate dove a volte l’umano, e tutto il carico di emotività che contiene, viene lasciato fuori. È in cammino l’uomo di Nazareth, in cammino come ciascuno di noi, deve decifrare frammenti di cielo, smontare idee fuorvianti di suo padre, lottare con se stesso per ridefinire concetti irreali di Dio. Camminare con i piedi ancorati saldamente a terra. Guardare gli altri muoversi, sperare e sbagliare e lì scoprire cosa significa l’amore. Succhiare dal volto altrui l’affetto divino che ha poco a che fare con la perfezione: «Ma io non vi domando d’essere perfetti. Vi domando d’essere amanti». Già, il volto e il corpo, i gesti e i passi, i giochi d’infanzia e i letti d’ospedale: che non siano proprio questi i luoghi in cui ama celarsi e svelarsi il padre celeste, infinitamente e tremendamente terreno?

 Nel cavo delle nostre mani

La prosa di Bobin descrive quel saper indugiare teneramente sulla realtà, avere il coraggio di dire e dirsi che possiamo stupirci e trovare l’infinito nelle pieghe del quotidiano, nel rumore della storia, dove si manifesta «il Dio imprevidente delle piogge d’estate e delle prime malinconie, il Dio bracconiere del tempo che passa». Occorre attenzione all’oggi, al qui e ora: occorre liberarsi dai preconcetti che costruiamo intorno a Lui e incamminarci in nuove visioni di Dio che, a volte, sembrano inopportune o lontane da ciò che pensiamo sia. Liberarlo, lasciarlo essere ciò che è. Disimparare quell’idea che ci siamo fatti di Lui e riscoprirlo in quel mondo dimenticato dal mondo che possiamo riconoscere e ammirare abbassando lo sguardo. Non stando soltanto a guardare il cielo, come hanno imparato a fare, con fatica, i primi testimoni del risorto.
Perché Lui non può che mostrarsi attraverso i passi e gli occhi; il pane e i tocchi; il vino, gli alberi e le stagioni. Accorgerci che c’è, esiste, cammina e ci chiede di camminare al suo fianco, su strade polverose. Lo possiamo trovare non troppo lontano: nei ritornelli dell’infanzia, nel sangue sprecato dei poveri, nella voce dei semplici, nel cavo delle nostre mani. Basta saper indugiare sul reale, sorprendersi. Ritornerà allora l’uomo, ritorneranno le madri e tutta quell’umanità che ci è sfuggita di mano. E dentro, annidato in ciascuna creatura, l’odore di Dio. Un Dio piccolo, un dio con la “d” minuscola.

 

Segnaliamo il volume:
CHRISTIAN BOBIN
Francesco e l’infinitamente
piccolo
San Paolo Editore