Il Cielo verso di noi

La testimonianza di un uomo che prova ad accogliere il progetto di Dio

 di Alessandro Deho’
già parroco, ora quasi eremita ai margini del bosco

 Adesso vivo in una casa ai margini di un bosco. Da più di tre anni.

Mentre sto scrivendo queste righe qui è tornato il silenzio, un silenzio che si può vedere, sale dalla valle del Magra aggrappandosi a nubi cariche di pioggia. Piove da settimane, non smette mai. Ho avuto ospiti per un paio di giorni, è difficile tornare alla solitudine, così come è difficile interromperla; sono i cambiamenti a essere dolorosi, ma mi fa piacere sentire ancora la fatica del silenzio, mi rassicura, non sto solo scappando dal caos. Sono qui per altro.
Non ho scelto di essere eremita e ancora rifiuto l’etichetta, mi sono trovato in questa storia in parte scegliendola e in parte scoprendola, adesso ho un briciolo di fede che mi permette di dire che sto accogliendo una storia più grande di me. Sono prete da quasi diciassette anni anche se spesso mi chiedo come io possa definirmi con la stessa parola per cui ho prestato giuramento tanto tempo fa, è cambiato tutto, in modo radicale, mi pare di aver vissuto mille vite. Preferisco l’indefinito, l’accennato, l’abbozzo. Quello che ho capito è che siamo in esodo, tutti noi, in cammino, siamo fatti per una pienezza che solo sarà, solo alla fine saremo definiti, in Lui.

 Nessuna categoria

Mi si chiede di raccontare la mia storia, qualcuno è caduto ancora nella trappola credendo di vedere in me l’uomo che decide di tagliare i ponti con l’efficientismo per dedicarsi alle relazioni, ma non è così, io sono venuto ad abitare qui per fare, per liberarmi dell’eccesso e di quello che io ritenevo inutile della vita di parrocchia, sono venuto qui per allontanarmi dal taglio manageriale richiesto ai preti, sono venuto in Lunigiana, da Bergamo, per fare, per scrivere, per camminare, per incontrare, per sistemare santuari, per predicare, per tornare a leggere e studiare la Bibbia… ma è crollato tutto, per fortuna. La morte di mio padre, il covid, il mio cammino personale e in queste cose l’agguato di Dio, ne sono sicuro. Sono stato scelto da un Dio silenzioso, sono stato scelto finalmente, e mi sento come uno che è stato atteso per più di quarant’anni.
Mi si chiede di raccontare la mia storia perché pare io possa dire qualcosa rispetto al tema de “i cristiani verso l’umano”, ma io non credo più. Non credo più esistano i cristiani, perché ho scelto di non credere più a nessuna categoria. Io non so se sono eremita ma vedo solo poche persone alla volta ormai, rare le predicazioni di gruppo, quasi quotidiani gli incontri personali. Io non vedo cristiani io vedo un volto alla volta. Non vedo i giovani o i vecchi, non vedo i parrocchiani, io incontro una persona alla volta e ognuna è diversa e unica e non è possibile nessuna riduzione a categoria. Forse è un limite ma questo sono io adesso, senza finzioni e con tanta onestà. Davvero non ho idea di come oggi credano i cristiani, so che ci si aspetta da me la difesa di un cristianesimo più orizzontale, più umano, più incarnato perché, mi si dice, ancora forte è la fuga, il rifugio verso la spiritualizzazione, il verticale, il divino astratto dalla storia. Ma io non so altro se non quello che vedo, e quello che vedo è sempre nuovo e molto personale, e quello che vedo è una danza tra verticale e orizzontale, tra Dio e uomo, e ci si stringe così stretti, a volte, che quasi si confondono le due figure.

 Corpo, fallimento, verità

Io apparentemente non sono mai stato spiritualista, nel senso negativo di chi fugge l’umano per rifugiarsi in un cielo lontano e perfetto, sono cresciuto in un ambiente cattolico progressista, spesso i miei genitori mi portavano da padre Turoldo a messa, Milani e Mazzolari e poi don Tonino Bello i riferimenti. Stampa cattolica e libri, tanti. Magari non letti ma usati per confermare un’appartenenza. Scuole della Parola e la difesa del Concilio Vaticano II come momento di riappropriazione di un cristianesimo sociale. Anche senza aver letto i testi. Il vangelo profumava sempre di nuovo, era un’eterna primavera. I poveri, le missioni, il terzo mondo. L’impegno nel commercio equo e solidale, il pacifismo, l’obiezione di coscienza. Questo il mio mondo. Arrivo da lì, ringrazio, ringrazio davvero per quello che ho vissuto, sono contento di quello che è stato, oggi però mi verrebbe da chiedere scusa, per quando ho creduto che quella fosse l’unica parte giusta della Chiesa, per quando mi sono battuto per dimostrare che l’unica parte fedele al vangelo fosse quella che io conoscevo.
Adesso chiederei perdono per la retorica pesante e per come in certi ambienti qualcuno continui ad usare i poveri e gli ultimi per giustificare la propria apparente rettitudine morale. Ripeto, ringrazio per quel periodo della mia vita ma ora dico che non basta, ringrazio che sia finito, andare da discepoli di Cristo (andarci personalmente e non in gruppo perché la fede è questione personalissima!) verso l’umano non può fermarsi qui. Aiuta, traccia un orizzonte, ma non basta. Soprattutto c’è un rischio enorme, che è quello di credere di parlare a nome di Dio mentre invece ci si muove solo per se stessi. Va bene andare verso l’umano ma non basta per scoprire il profilo sconvolgente di Cristo. Si possono costruire cammini perfetti, si può vivere per la giustizia ma si può anche rischiare di non franare mai nel vero e unico fatto rivoluzionario: la resurrezione. Perché in fondo ci si accontenta di un mondo giusto, che non sarà mai.
Non ho mai evitato il corpo. Prima di essere prete ho lavorato come infermiere professionale in psichiatria e in ematologia. Più che orizzontale la mia fede è stata un affondo, sono sprofondato nella carne dolente, nelle viscere del corpo malato, vecchio, fuori controllo. Ho lavorato per alcuni anni, prima di decidermi per il seminario, solo ora sto comprendendo la preziosità di quell’esperienza e non tanto per il bene che ho provato a fare, ero un ragazzino inesperto lanciato in un mondo molto più grande di me, ma per l’esperienza del fallimento. In psichiatria e, anni fa, in ematologia, spesso non si guariva. Si tentava ma non si guariva. Vinceva spesso la morte (ematologia) o la cronicità della follia (psichiatria). Il fallimento come dato di fatto.
Ma anche una seconda cosa ho imparato, anche se l’ho capito molto tempo dopo, in quei reparti di ospedale c’era la verità, crollavano le facciate, il corpo non era idealizzato, non era una teoria sull’antropologia, erano corpi dolenti e sfatti, irreparabili e unici, a volte brutti da vedere. Erano veri. Veri. Veri. Andare verso l’umano da discepoli di Cristo per me è questo, accettare di camminare verso la verità e non verso una astratta idea di umanità perfetta. Ecco perché in molti non si incamminano, perché sprofondare nell’umano significa vedere anche le ombre, il male, la follia, il marcio, la morte, la menzogna, il peccato. Ci si può rifugiare nella verticalità del divino, a volte, per proteggersi. E io non riesco a condannare chi opta per quella scelta.

 Oltre l’ideologia

In parrocchia, da prete, credo di essere stato molto ideologico. Anni strepitosi, ringrazio e sono felice di quel tratto di strada, ma ho sofferto una Chiesa che spesso parlava di umanità intendendo per umanità solo quella che rispondeva a una certa idea preconfezionata e addomesticata. Parrocchie in cui si abusava della parola “antropologico” ma in cui non si mettevano i bimbi piccoli in sacrestia durante le celebrazioni perché i bimbi… piangono e disturbano. Il corpo invece è sempre un corpo estraneo, e il corpo estraneo dà fastidio, provoca, dice di no, puzza e piange, e non ringrazia. Certo che è giusto andare verso l’umano, ma solo a patto di non avere strutture di pensiero o pastorali così rigide da voler piegare l’umano alle nostre fissazioni. Così credo di aver capito due o tre cose che mi piacerebbe non dimenticare ora che sono a Crocetta, in questa casa immersa nel silenzio, ora che non ho più un ruolo preciso o una funzione da difendere o un progetto pastorale a cui dedicare ogni secondo della mia vita. La prima cosa che ho capito è che non siamo noi che dobbiamo andare verso l’umano ma è il divino che sprofonda nell’umano, noi ci dobbiamo solo lasciare invadere, e perderci in questa invasione. Se resisto all’amore posso essere il cristiano più progressista del mondo ma sarò sempre e solo pieno di me. Se mi lascio invadere da Cristo posso essere il più tradizionalista ma sarò bellissimo perché Lui danza in me. Problema vero è quindi cedere all’amore, essere così umani da lasciarsi fecondare dal divino. Il resto conta niente, è sterile guerra di posizione.
La seconda cosa che ho capito è che tutto il mio andare verso i poveri e verso l’umano e verso gli ultimi e verso i più ultimi degli ultimi era solo una scusa per non andare verso il povero che sono io. Facile andare verso l’umano e amare le piaghe altrui ma la vera sfida è accettare la verità e il peccato di quello che si è e andare verso se stessi. E credere di essere amabili, e perdonabili, nonostante tutto.
La terza cosa è la somma delle prime due ma è fondamentale. Non è importante se siamo cristiani che andiamo verso l’uomo oppure se ci incamminiamo verso il Cielo, tanto a un certo punto dobbiamo fermarci, sono strade che da soli non possiamo percorrere, quello che conta è che a un certo punto sentiremo che solo una cosa bastava: sentire che Cristo ci camminava incontro, veniva da sempre verso di noi, verso la nostra singolare umanità, e allora ridere delle scaramucce tra gruppi parrocchiali e godere del suo amore così gratuito e sorprendente da risultare irresistibile. Non siamo noi ad andare a Lui è Lui a venire a noi e in noi, è Lui a credere nell’umano tanto da fecondarlo e trasfigurarlo.