Ragusa, nel profondo della Sicilia, ci racconta di una nuova esperienza pastorale, che trasforma il dramma del dolore e della costernazione di chi ha perso un figlio in esperienza di rigenerante vicinanza, di guarigione da ferite antiche e di riattivazione di una vitalità nuova e sensibile al prossimo. Una esperienza inserita pienamente nella pastorale, che può essere esportata anche in tante altre diocesi.

a cura di Gilberto Borghi

 Davanti a te

Si può ritrovare il profumo della vita? 

di Agata Pisana
counsellor gestaltica

 Nel 2005 a Ragusa tre ragazzini di soli tredici anni si suicidano, uno dopo l’altro, a distanza di qualche giorno.

La città è sotto choc, il dolore è così intenso da far sembrare tutto inutile: condoglianze, abbracci, parole di consolazione. Fra la calca di gente, i genitori di uno dei tre ragazzini notano, però, che un contatto riesce a scuoterli: quello dei genitori che, a loro volta, hanno perso un figlio. Si guardano negli occhi e si capiscono. Nei giorni successivi, cominciano ad incontrarsi, ma nessuno di loro si sente abbastanza forte da sostenere l’altro. Decidono allora di rivolgersi a chi è deputato per definizione a “fasciare le ferite”: il vescovo della diocesi.
Questi (mons. Paolo Urso), precorrendo quasi le parole di papa Francesco («Abbandonare una famiglia quando una morte la ferisce, sarebbe una mancanza di misericordia, perdere un’opportunità pastorale», AL 253), decide di avviare una sezione della pastorale familiare dedicata appositamente ai lutti gravi.

 Il guscio si schiude

La strutturazione e conduzione dell’iniziativa viene affidata ad un sacerdote (don Gianni Mezzasalma) e ad una counsellor gestaltica (la sottoscritta), che da allora hanno reso continuo questo percorso, anche con la collaborazione di altri sacerdoti (don Mezzasalma è stato poi chiamato ad altri incarichi) e di coppie che, man mano, hanno elaborato il proprio lutto. Ad oggi sono state seguite più di cento famiglie, alcune appartenenti alla diocesi di Ragusa, ma altre provenienti anche da diocesi limitrofe. 
La reazione più istintiva in chi subisce il trauma della morte di un figlio (soprattutto se improvvisa) è la chiusura in sé stessi: tutto il mondo sembra essersi capovolto, ogni certezza persa, nessun futuro all’orizzonte, nessuna relazione importante. «È come se si fermasse il tempo: si apre un abisso che ingoia il passato e anche il futuro» (AL 254). È una sorta di crollo interiore totale. La prima cosa da fare, dunque, è andare a casa loro, in questa “periferia esistenziale”, e offrire un’opportunità di essere ascoltati e compresi. Una volta creata la relazione e aperta la fiducia, si offre l’invito a partecipare al percorso vero e proprio, che consiste in una serie di incontri (una domenica pomeriggio al mese, tenuti in locali parrocchiali), in cui i genitori possono condividere le proprie esperienze, affrontare tematiche specifiche, esplorare i propri vissuti, dire le proprie emozioni, ritrovare interesse per la relazione. Il guscio in cui si erano chiusi a poco a poco si schiude. Le domande esplose dentro al dolore personale possono trovare ascolto, espressione e maturazione: «Perché proprio a me?», «Quali mie risorse sto utilizzando nell’affrontare questa situazione?», «Come rapportarsi col coniuge e con gli altri figli?», «Come rapportarsi con la felicità degli altri?», «Cosa posso fare adesso?». Lasciare la libertà di poter condividere o no i rimbalzi emotivi e mentali diventa il modo attraverso cui, nel tempo, si aprono tracce di risposte e barlumi di verità.

 In Chiesa un messaggio laico

Gli incontri danno un messaggio laico di fiducia nell’umano recupero della propria integrità, anche se i trainers dichiarano con chiarezza la loro personale adesione a Cristo e la propria fede ed anche se il fatto che l’iniziativa sia interna alle attività pastorali diocesane rende la Chiesa presenza attiva fra la gente, luogo in cui è possibile abbracciarsi e condividere le proprie sofferenze, dove trovare una spalla su cui piangere e mani che asciugano le lacrime. Gesù si fa presente nella carica di umanità di ognuno: nella spinta ad essere “guaritori feriti”, a non voltare le spalle dinanzi a chi giace a terra ai margini della strada, ma si fa anche concreta presenza nella realtà stessa del percorso.
Esistono in Italia molti altri gruppi simili (“Figli in Cielo” fondati e guidati da Andreana Bassanetti o “Figli in Paradiso: ali fra cielo e terra” di Virginia Campanile o i gruppi di Auto Mutuo Aiuto di padre Arnaldo Pangrazzi), ma sono realizzazioni di genitori che si sono associati in onlus per condividere, raccontarsi, pregare insieme, mentre questo percorso di Ragusa risulta pioniere nel proprio genere all’interno della Chiesa.
Unico certamente per l’impostazione del metodo di elaborazione del lutto, che – da noi ideato e affinato in oltre quindici anni di esperienza diretta – legge il processo non secondo le tradizionali fasi descritte da Elisabeth Kubler-Ross ma secondo l’ermeneutica della Gestalt Therapy: essendo la relazione la cifra di crescita della persona umana, il “lutto” è quella condizione di disorientamento e frustrazione che segue alla fine di un determinato tipo di relazione avuto con la persona cara (fatto di abbracci, conversazioni, passeggiate, cura e quanto altro) per ritrovare la presenza dell’altro nella propria vita nonostante la sua assenza fisica. Questo può accadere non sempre nella direzione di un futuro incontro nell’altra vita – il che presuppone una fede – ma in ogni essere umano, perché ciò che una relazione imprime non si limita a ciò che materialmente si condivide, ma resta dentro di noi come traccia feconda di amore che abbiamo dato e che abbiamo ricevuto, di consigli, di cammino in due, di lacrime piante insieme e di risate all’unisono. Ciò che siamo è anche ciò che tutti gli incontri della nostra vita ci fanno essere e nessuna presenza, in sintesi, si perde, ma resta. Ritrovarla in noi è poter avere una pienezza di relazione anche se in forma dolorosa e triste, ma calda.

 Creativi di nuovo

La promozione di una tale capacità di incontro che va oltre la morte è favorita proprio dalla dinamica stessa in cui si svolgono gli incontri in gruppo: ogni volta che fra due genitori si articola un dialogo, infatti, non è tanto utile ciò che l’uno riceve dall’altro, ma ciò che ognuno sente di poter offrire all’altro. In persone pietrificate dal dolore provare interesse per il dolore altrui è già un relativizzare il proprio dolore, non considerarlo assoluto e quindi iniziare a metabolizzarlo. La competenza professionale dei “trainers” permette di far fluire i processi evolutivi, di offrire sostegno specifico ad ognuno, di creare un clima di contenimento e di sicurezza, di arginare i bisogni e sollecitare la partecipazione.
I nuovi comportamenti man mano acquisiti vengono considerati indice di completamento del percorso: quando un genitore torna ad esprimere la propria creatività e vivacità, quando riesce di nuovo a fare programmi e ad organizzare qualche attività, quando inizia ad assentarsi dall’incontro per altri impegni familiari o sociali significa che è tornato ad avere un equilibrio che gli consente di fare le cose che faceva ‘prima’. Il che, peraltro, non è un semplice tornare indietro, ma un ricominciare con nuova carica emotiva, più acuta sensibilità e soprattutto più sana valutazione delle priorità: tantissimi genitori testimoniano di come l’esperienza li ha liberati da tante afflizioni e gli ha insegnato a gustare i veri valori della vita.