Una luce tra le crepe

Il difficile - quanto essenziale - cammino del dialogo tra religione cattolica e cultura cinese

di Giorgio Bernardelli
coordinatore editoriale di AsiaNews

 Il dialogo con la cultura cinese è un tema che ha segnato fin dagli albori l’evangelizzazione della Cina.

Si cita spesso la figura di Matteo Ricci (1552-1610), il grande gesuita e matematico marchigiano che nel XVI secolo alla corte dei Ming visse a tal punto il motto «farsi cinese con i cinesi» da guadagnarsi dai mandarini il titolo onorifico di “Studioso confuciano del grande Occidente”. Ancora più significativa per il dialogo in profondità con la cultura e la spiritualità cinese, però, fu forse la figura del suo discepolo Giulio Aleni (1582-1649), anche lui gesuita, che nella provincia del Fujian fu pioniere del dialogo con i letterati confuciani. I suoi dialoghi con un gruppo di loro convertitisi al cristianesimo fu raccolto nel Kuoduo richao (il “Diario delle ammonizioni orali”), una testimonianza straordinaria del primo cristianesimo cinese ma anche delle domande che suscitava nella cultura confuciana l’annuncio del vangelo.

Tanti ostacoli sul cammino

Ma fu un canale di comunicazione che in Cina non ebbe vita facile e non solo per una chiusura altrui: fu infatti lo scontro tra i gesuiti da una parte e gli altri ordini missionari dall’altra a portare, un secolo dopo, alla cosiddetta disputa sui “riti cinesi”. Nel 1693 il vicario apostolico del Fujian Charles Maigrot - appartenente alla Società per le Missioni Estere di Parigi - fu il primo a emettere un decreto che proibiva l'uso dei nomi Tiān (Cielo) e Shàngdi (Signore supremo), utilizzati da secoli nel panorama religioso cinese, per indicare Dio tra i cristiani. E quello stesso decreto proibì ai cristiani anche di apporre l'iscrizione “Sede dell'anima” nelle tavolette usate in ricordo degli antenati e di partecipare ai riti equinoziali che si tenevano in onore di Confucio e del “Cielo”, due gesti propri della concezione cinese della vita e della morte. Questa linea - tesa a marcare la differenza tra il cristianesimo e le religioni tradizionali cinesi - fu il tema di uno scontro durissimo durato decenni nel mondo missionario. Finché fu Roma in persona a imporre definitivamente nel 1742 la linea intransigente, con la bolla di papa Benedetto XIV Ex quo singulari. E ancora oggi sono in molti a sostenere che quell’esito fu un’occasione mancata per entrare in dialogo con le categorie del sacro tipiche della cultura cinese.
Il resto lo fece la storia. Prima con le dure persecuzioni contro i cristiani scoppiate nel XVIII secolo con l’intento politico di rafforzare la dinastia Qing. E poi - dalla metà del XIX secolo, al tempo dei cosiddetti “trattati ineguali” e della penetrazione commerciale delle grandi potenze coloniali occidentali nell’impero ormai in via di sgretolamento - con una nuova stagione missionaria, molto meno interessata al dialogo con la cultura cinese. Questo non significa che i nuovi testimoni del vangelo giunti dall’Occidente non fossero animati da una fede solida e da un amore profondo per il popolo cinese: tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento centinaia di missionari condivisero fino in fondo con il proprio piccolo gregge le sofferenze provocate da calamità naturali, epidemie e tribolazioni, in un Paese messo in ginocchio da signori della guerra, invasioni straniere e lotte fratricide. E papa Benedetto XV stesso - proprio pensando alla Cina - già nel 1919 aveva poi scritto la lettera apostolica Maximum illud, in cui metteva in guardia con chiarezza dai rischi dell’abbraccio tra la missione e le imprese coloniali.

Da Mao ad oggi

Ciò nonostante, proprio per quel dialogo rimasto incompiuto con la cultura cinese, divenne tremendamente facile nella tempesta comunista del XX secolo etichettare il cristianesimo come “la religione degli stranieri”. Con tutto quello che ne è seguito: dalla pretesa (tutta politica) di uno strappo con Roma attraverso la creazione di organismi “cattolici” fedeli al Partito (la famigerata Associazione patriottica dei cattolici cinesi, fondata nel 1957) fino al decennio della Rivoluzione culturale (1966-1976), tristemente segnata dalla foga di arrivare allo sradicamento della stessa religiosità dallo spirito cinese.
A partire da quelle macerie - con una lenta ricostruzione - la Cina di oggi è rinata, con i suoi traguardi raggiunti e le sue contraddizioni. Dagli anni Ottanta anche la Chiesa cattolica cinese ha potuto cominciare ad uscire dalle catacombe, pur potendo tuttora godere solo di una “libertà vigilata”. E uno dei fenomeni più importanti della nuova stagione è stato proprio il riemergere delle domande di senso nel contesto del nuovo materialismo dei consumi che attraversa la società della nuova Cina, proiettata sull’orizzonte globale. Il modello tecnocratico imposto dal Partito come l’orizzonte del XXI secolo ha avuto la crescita del benessere come biglietto da visita. Ma l’altra faccia è stata il dilagare dell’utilitarismo, che sta portando a un progressivo abbandono dei costumi e dei valori spirituali tradizionali cinesi.

Chiamare il bluff

L’unico culto è diventato quello della potenza nazionale. E a questo guarda in maniera pericolosa anche l’idea di “sinicizzazione” che il presidente Xi Jingping - appena riconfermato per la terza volta alla guida del Partito comunista cinese dal XX Congresso - indica come recinto entro cui collocarsi anche alla Chiesa cattolica che vive in Cina. È la grande ambiguità di un confucianesimo ridotto a pragmatismo, dove l’idea di “armonia sociale” diventa una coltre sotto cui reprimere ogni anelito di libertà, come il caso di Hong Kong sta mostrando chiaramente a tutti da più di tre anni.
Proprio tutto questo - però - riporta impetuosamente in primo piano la sfida del dialogo con la cultura cinese: è solo attraverso questa strada, infatti, che è possibile chiamare il “bluff” di un nazionalismo esasperato, imbellettato con un po’ di tradizione. Al tempo del ritorno delle prove muscolari - che come abbiamo visto bene quest’estate non mettono in subbuglio solo l’Oriente europeo ma anche posti come Taiwan - diventa quanto mai urgente coltivare l’“amicizia” di cui parlavano Matteo Ricci e Giulio Aleni. A questo punta espressamente papa Francesco, che - nonostante le ambiguità e gli scarsi successi di questi anni - ha scelto di rinnovare comunque l’Accordo provvisorio con la Repubblica popolare cinese sulla nomina dei vescovi. E anche dal Kazakistan ha ripetuto di «essere sempre pronto ad andare in Cina». 
A patto, però, di non chiudere gli occhi sul fatto che con Xi Jinping nella società cinese - e per i cattolici in particolare - gli spazi di libertà si sono oggettivamente ristretti. Come scriveva qualche mese fa l’attuale vescovo di Hong Kong, mons. Stephen Chow Sau-yan: «Sento che la nostra vita sta diventando sempre più simile a un'esistenza tra le crepe. Ma l'amore e la luce di Dio si trovano in tutte le cose, anche nelle crepe. Accettare il cambiamento non significa approvarlo, ma imparare a discernere nuove possibilità. Quanto più dura è la condizione, tanto più resistente sarà la vita».

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