Se Maometto non va alla politica

I rischi dell’uso politico della religione e dell’uso religioso della politica

 di Claudio Monge
superiore della comunità domenicana di Istanbul e responsabile del Centro per il Dialogo interreligioso e culturale.

 Il tema di questo contributo è estremamente complesso e la sua comprensione è spesso viziata da profondi malintesi.

Partiamo subito dal Vangelo e dal troppo strumentalizzato: «Rendete a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio» (Mt 22,21), nell’ambito delle relazioni tra lo Stato e la Chiesa. Con questa espressione Gesù introduce nel mondo antico, che considerava divina l’origine del potere politico, una distinzione rivoluzionaria: la politica è necessaria ma va desacralizzata. In sostanza, quella del potere di Cesare è una funzione necessaria ma umana, esercitata da esseri umani davanti ai quali sta il diritto di Dio, che è garante di ogni grandezza e libertà umana, che non è mai lecito calpestare! La netta distinzione tra Dio e Cesare è stata poi negata, di fatto, dalla Chiesa cattolica, dal regno di Costantino fino a pochi decenni fa. Le Chiese ortodosse, invece, hanno continuato la tradizione della Chiesa greca sotto l’Impero bizantino, rimanendo una sorta di appendice dello Stato. Ecco perché, dopo la nascita degli Stati nazionali, sono diventate naturalmente nazionaliste: la Chiesa di Mosca ne è un lampante esempio dei giorni nostri.
Dovremmo qui parlare di un vero e proprio “uso religioso della politica”! 

Laicità e secolarizzazione

Quanto esposto ci fa capire che il rapporto tra il religioso e il politico è non solo storicamente incontestabile ma caratterizzato spesso da una reciproca strumentalizzazione e, talvolta, il loro intreccio è così stretto che è difficile sapere chi manovra chi. Per il potere politico le religioni interessano principalmente come poli di attrazione identitaria e come forze di mobilitazione delle passioni collettive e questo indipendentemente dal progressivo processo di secolarizzazione delle società post-moderne (un caso eclatante è quello dell’induismo in India: unico elemento unificante in un paese con 24 lingue ufficiali, circa duemila gruppi etnici divisi in sette famiglie principali!) La secolarizzazione è un movimento di emancipazione dal riferimento religioso, legato a quella che viene chiamata “modernità”, che non ha nulla a che vedere con la laicità, che è un principio deciso da uno Stato, che consiste nell’affrancare, legalmente e giuridicamente, il potere politico dal potere religioso.
La laicità è, dunque, un’opzione politica espressa in una costituzione, mentre la secolarizzazione è un processo di civiltà, in qualche modo irreversibile anche in paesi a cultura islamica. Opporre laicità a religione è un errore di prospettiva. La sfida per la politica è quella di definire il posto dell’espressione religiosa nello spazio pubblico, rispettandone l’autonomia, ma anche resistendo alla tentazione dell’ostentazione demagogica – e obiettivamente blasfema – dei simboli religiosi e dell’uso strumentale del Sacro. Negli ultimi anni in Europa, ad esempio, a fronte di una progressiva marginalità della pratica religiosa nella vita sociale, si registra una riscoperta delle “radici cristiane” in chiave identitaria e anti-musulmana. Ma, come giustamente fanno notare gli esperti di teologia politica, occorre non sottovalutare il fatto che la strumentalizzazione della religione a fini politici è un’arma a doppio taglio. La condizione necessaria (ma per niente sufficiente) perché possa funzionare è che il potere, che se ne serve, sia solido o comunque in grado di controllare i movimenti religiosi.

 Centralità alla persona

D’altro canto, la sfida per le religioni è quella di non trincerarsi in un mondo parallelo, né di pretendere privilegi insostenibili in società plurali, ma di essere lievito al cuore delle storia, sostenendo una “vera democrazia”, che non è semplice modalità giuridico-politica, puramente formale o procedurale, ma dev’essere pensata secondo una finalità essenzialmente etica, che ubbidisce ad un imperativo di giustizia, che assolutizza il dovere del riconoscimento di ogni persona come soggetto detentore di inalienabili diritti fondamentali. Insomma, le religioni comportano un modo di abitare il mondo, suggeriscono uno stile di vita e non esprimono solo delle regole astratte che implicano una comprensione semplicemente teorica ed estetizzante del reale. Le religioni, dunque, hanno un ruolo positivo da giocare a patto che sappiano servire la centralità della persona umana, molto più che imporre nuovi diktat morali o, ancora peggio, affermare la pretesa di difendere i “diritti di Dio”, stravolgendo la logica di un Dio che si fa garante non dei suoi ma dei diritti delle sue creature, senza distinzioni. Là dove si è passati talvolta dalla sconfinata brutalità dei totalitarismi atei, all’opposto di un estremismo religioso che abusa del nome di Dio per giustificare la violenza, gli esiti sono stati altrettanto distruttivi. Il fanatismo religioso è atto idolatrico, perché rimpiazza Dio con un idolo plasmato ad immagine e somiglianza di un’umanità violenta, che si erge a giudice degli uomini e della storia.

 Umano è politico

Qualcuno potrebbe eccepire che una tale contestazione teologica della violenza religiosa esenti, già in partenza, le religioni che non contemplano l’incarnazione al cuore della loro rivelazione.
L’incarnazione come umanizzazione del Figlio di Dio comporta il fatto che Egli si sottometta liberamente alle condizioni le più concrete di una carne umana e di un popolo particolare e storicamente contestualizzato. Gesù di Nazareth è giudeo per nascita e per inculturazione e per i molteplici legami di solidarietà con la sua comunità umana e la storia del suo popolo. Questo però non Gli impedisce di lasciarci in eredità un messaggio che parla a tutte le culture e che attraversa la storia delle culture, interpellandole con la stessa forza anche ai nostri giorni. Questo essenzialmente perché il Cristo istituisce la relazione, la Cura dell’altro e cioè la prossimità dell’essere umano all’essere umano, alla stessa altezza della prossimità di Dio all’umanità. E questa è l’affermazione della “dimensione politica del cristianesimo”, non strumentalizzabile dai poteri semplicemente umani. Questo primato della relazione, non è necessariamente esclusivo dell’eredità cristiana.
L’esperienza ultra ventennale di vita in Medioriente, crogiolo delle religioni abramitiche, ci insegna che solo la costruzione di una cittadinanza non di costrizione ma di scelta, dove le fedi diventano premessa di un impegno civico per una società plurale e non barricata eretta per escludere “l’altro”, è l’antidoto a quella violenza che talvolta sembra strutturale e invincibile a queste latitudini! Il vivere l’ospitalità come porta d’accesso a nuove modalità ed orizzonti del dialogo interreligioso stesso, significa cercare convergenze al servizio dell’umano, perché è l’umanità che ci accomuna, al di là delle culture e delle appartenenze religiose. Questa constatazione ha un peso specifico sostanziale, perché mette il dito nella piaga della ragione principale della crisi delle religioni (non necessariamente del religioso come fenomenologia), oltre che della nobile arte politica che nella religione ha sempre cercato la sua legittimazione: parlare di Dio o strumentalizzarlo, perdendo di vista l’umanità, ci ha portati a divenire un’umanità orfana di Dio, profondamente cinica e disumana (apolitica)!

 

 

Segnaliamo il volume:
ALESSANDRO Cortesi - CLAUDIO Monge (a cura di)
Sulle sponde del Mediterraneo. Geopolitica, guerre, religioni
Nerbini, Firenze 2017, pp. 128