Per motivi di lavoro ho letto e analizzato le sintesi diocesane dell’ascolto sinodale delle sette diocesi della Romagna. Quale immagine di Chiesa se ne può ricavare? I report ci consegnano una mappa ecclesiale che va letta in modo stratificato, come si fa con i navigatori, in cui possiamo distinguere un livello “macro”, un livello “suolo” e un livello “profondo”.

di Gilberto Borghi

 Gli strati siamo noi

Il sinodo ci restituisce la nostra realtà

 Macro

A livello macro la dominante emotiva sembra la “crisi”: fatica, sconforto, immobilismo, indifferenza, disorientamento, aridità, sono parole presenti nei report.

Ne deriva un atteggiamento diffuso che sembra di “difesa” da un nemico percepito a volte all’interno stesso della Chiesa a volte fuori, in cui si possono individuare tre stili difensivi, a seconda delle comunità o delle persone: passivo, dove l’avanzata del nemico sembra ineluttabile e si sopravvive nel «si è sempre fatto così», nella speranza di un miracolo, o dell’arrivo del regno o del «ci penseranno altri, non è compito mio»; aggressivo, dove il dovere di mantenere le posizioni sul campo spinge all’irrigidimento delle forme, delle regole, delle verità, al senso di superiorità rispetto a chi non è come noi, e al giudizio facile e non richiesto; remissivo, dove si cerca di venire a patti col nemico, anche rinunciando a qualcosa del proprio territorio, in nome della differenza tra cose essenziali e non essenziale della propria identità, pur di sopravvivere.
Immersi in un cambio d’epoca, espresso molte volte nei report con l’immagine della barca nella tempesta, per non annegare non entriamo più in relazione con la vita reale. Anche perché abbiamo l’impressione che ci manchino gli strumenti culturali per poterlo fare, e rischiamo un intellettualismo che non dice più nulla a nessuno. Impellente e generalizzata, si evidenzia soprattutto la necessità di un linguaggio nuovo che le nostre Chiese cercano di costruire, non per “adeguarsi” al mondo, ma per poter mettersi davvero in comunicazione con la realtà, che permetterebbe di vivere la fede “impastata” con la vita di ogni giorno e in cui noi potremmo comprendere il mondo e il mondo comprendere noi.

 Suolo

Quando la lente si avvicina al terreno, si notano anche delle “enclave” di vivacità ecclesiale, di desiderio di partecipare alla vita delle comunità, di impegno bello a testimoniare con franchezza la Parola di Dio. Certe comunità davvero fanno ancora trapelare il senso della gioia di essere cristiani e la gratitudine a Dio, che permette di camminare ancora assieme a dei fratelli di fede. Si intravvedono gruppi che cercano, con intelligenza e amore, esperienze di “confine”, dove la testimonianza e la condivisione della carità è ancora capace di rendere attraente e apprezzabile quella comunità. Dove non prevale la difesa, ma l’accoglienza; dove si ritrova un linguaggio che non si preoccupa tanto e subito di dare risposte, quanto di ascoltare, condividere e mantenere aperte le domande di chi si incontra, affinché possa fare esperienza del sentirsi accolto in queste domande, prima e di più che di trovare risposte.
La parola “frammentazione” ricorre spesso nei report, l’impressione diffusa è quella di comunità e gruppi autoreferenziali, chiusi, spesso dei “cerchi magici”, in cui non sempre le relazioni sono poi così amichevoli. Ma anche in questi gruppi, a volte, si cerca di rendere un servizio in cui si crede davvero e non solo per dovere. Non nascondiamo che in essi si rischia una sorta di “clericalismo laico” o di vivere quel gruppo come un rifugio, un nido. Ma si trovano anche gruppi in cui davvero chi arriva può dire: “c’è sempre qualcuno che ti aspetta”, soprattutto se si tratta di movimenti o famiglie religiose, più che di parrocchie. Evidente, però, il punto di maggiore criticità della vita interna delle nostre comunità: le relazioni preti-laici. Qui i report indicano che la differenza maggiore è tra chi pensa di aumentare la collaborazione dei laici con i preti, fermo restando che il prete deve essere il centro attivo della pastorale della comunità in ogni settore, e chi ritiene che sia giunto il tempo di passare alla corresponsabilità in cui il ruolo di centro attivo è della comunità tutta, e laici e preti hanno ruoli diversi, ma complementari e corresponsabili. Al momento, sembra prevalere ancora la prima tendenza, in cui i laici sono coinvolti solo a livello operativo, rendendo spesso inutile il sistema attuale degli organi di rappresentanza ecclesiale.
Questo stato di cose trova la sua radice nel clericalismo ancora diffuso e, a volte, anche promosso dagli stessi laici, oltre che dai preti. Sia a livello parrocchiale che a livello diocesano, l’impressione è di una organizzazione ancora molto rigida e gerarchizzata. Anche qui però non possiamo occultare la presenza di realtà in cui il sacerdote è un pastore presente, vicino, non un funzionario o un controllore.

 Profondo

Se con la lente scendiamo ancora di più in profondità, a livello della fede personale, l’immagine si fa ancora più articolata. Intanto una diffusa sensazione di vivere una Chiesa che non rimanda abbastanza al divino, dove si percepisce una scarsa cura effettiva della spiritualità. Appesantita dal ritualismo, dal formalismo, dai dogmatismi e moralismi, la vita di fede sembra aver perso il senso del mistero, la sua bellezza e la gioia di seguire Gesù. Ma ci sono anche laici che, per trovare “pane” per la propria fede, sono “emigrati” ecclesialmente, andando alla ricerca di quel buon tesoro che la tradizione cristiana possiede, e rintracciando forme, stili e guide spirituali con le quali stanno facendo crescere davvero la loro fede. E, a volte, accade anche che questo abbia un ritorno “al paese natio” nel poter condividere con altri della propria comunità di origine questo loro tesoro, anche al di là del consenso del sacerdote.
Queste narrazioni mettono la luce su un problema essenziale per le nostre chiese: ritrovare una fede che parli al cuore, al corpo e alla testa, come molti report rimandano. L’impressione è che le nostre comunità sul piano di fede abbiano “perso i sensi”, non riescano a vivere la fede se non a livello di pensiero e poco più. E qui si apre uno squarcio molto evidente sulla condizione di maturità umana dei fedeli delle nostre Chiese, preti e religiosi compresi, in cui la fede “gira” male perché la struttura umana di quella persona ha dei disequilibri che non consentono allo Spirito tutta la libertà di manovra necessaria ad un cammino di santità.
A corollario di ciò si assiste, sempre più spesso, ad una ricerca della propria identità cristiana come di un “totem” da conservare gelosamente, che ci dica che siamo vivi e chi siamo. Rifuggendo così il dialogo con chi è diverso da noi, sia dentro che fuori la Chiesa. Resta, però, ancora presente anche chi ha sperimentato davvero il senso dell’essere amato da Dio, e di poter consegnare a lui, con libertà e gioia, la propria vita e la propria identità, perché sa che vita e identità sono da spendere non da conservare. Credo sinceramente che il primo frutto del sinodo sia almeno questo: poterci guardare e renderci consapevoli della nostra condizione ecclesiale.