Carcere è sostantivo maschile, punizione è femminile. Pena è femminile, reato è maschile. Riscatto è maschile, libertà è femminile. La dialettica potrebbe andare avanti. Nei fatti e nelle esperienze va avanti. Nella vita da reclusi, maschile e femminile vengono annullati nell’indifferenziato dell’esecuzione penale. Ma soprattutto dall’indifferenza. La pena è disumana se annulla le identità. Ancora più e per di più quando soffoca la relazione.

 a cura della Redazione di “Ne vale la pena”

 In gabbia come in cielo

Non c’è più né uomo né donna: siamo detenuti!

DIETRO LE SBARRE

Maschio e femmina: in carcere è tabù

Rapporto maschio-femmina in carcere è un ossimoro. La pena carceraria di fatto affligge anche mogli, fidanzate, compagne di vita dei detenuti.

L'ordinamento penitenziario ha provato a rammendare la lacerazione dei rapporti affettivi introducendo normative che consentano al detenuto e alla sua donna di liberare un minimo di affetto e di relazione. Si applica a questo momento di sinergia affettiva un contingentamento, circoscrivendolo nel tempo e nello spazio, in condizioni tutt’altro che consone. Ciò che chiamiamo amore, ed è fatto soprattutto di quotidianità e di piccoli gesti, resta congelato per tutto il periodo della detenzione. Strettamente collegato al congelamento della sfera affettiva c’è la questione del blocco della sfera sessuale, tema spinoso ed ampiamente rimosso, anche se profondamente pervasivo della vita detentiva.
Le pareti lato branda delle camere di pernottamento sono tappezzate di foto a colori di procaci corpi femminili attaccate con lo scotch. Sono immagini datate perché  attualmente è vietato attaccare fotografie alle pareti. Ma si tratta solo di un dettaglio all’interno di una condizione complessiva di manipolazione della sfera emotiva, che pervade la vita degli uomini e delle donne reclusi.
L'interdizione sessuale resta nelle società contemporanee uno dei più significativi indicatori delle fratture generazionali: al di qua dell'autodeterminazione sessuale, l’individuo  vive una condizione di “minore età” o, in senso più pregnante e meno anagrafico, di “minorità”. I privati della libertà sono automaticamente privati anche della propria sessualità, regrediti ad una dimensione prepuberale. Accade così che l'universo dei detenuti, composto pressoché interamente da maschi adulti, venga considerato, nel discorso pubblico di tutte le istituzioni, come un corpo asessuato. Infatti a nessun livello delle politiche di riforma del sistema penitenziario, il detenuto è considerato nell'interezza del suo corpo, sesso compreso. La privazione di ogni relazione sessuale è considerata una "pena accessoria" implicita, indiscussa e indiscutibile.

Fabrizio Pomes

 Donna, fonte di libertà!

L’unico dialogo che c’è tra uomo e donna in un carcere è nella nostra mente, perché la realtà non offre occasioni. Ho visto detenuti prendere volontariamente rapporti, oppure fingere di sentirsi male, per poter parlare con le figure femminili. Per uno scherzo del destino o per ironia della sorte, tutte le figure extra, cioè quelle che non vediamo costantemente, sono donne. La direttrice, le commissarie, le dottoresse, le insegnanti, la psichiatra, la psicologa, le operatrici del Sert, sono tutte donne! Solo il dentista è “maschio”. Ironizzando: sarà per questo che nella rivolta del 2020 hanno distrutto e bruciato il suo ambulatorio? In fondo il carcere è come una caserma: bisogna aspettare per avere un dialogo con una donna. Così anche noi ci adattiamo aspettando un colloquio, una telefonata, una visita medica.
In fondo, il carcere è colorito da nomi femminili: domandina, istanza, infermeria, spesa, area educativa, doccia, cella e tante altre. La mia preferita è la caffettiera: mi ricorda un gesto femminile. In questo periodo il carcere di Bologna offre poche occasioni ai detenuti per poter colloquiare con qualche figura femminile e svolgere insieme qualche attività; qui siamo rigorosamente separati. Ho saputo che in altre carceri, ad esempio a Pesaro, detenuti e detenute svolgono insieme attività ricreative, ma a Bologna tutto questo sembra impossibile.  Prima c’era il coro Papageno, che era un’eccezione alla regola, e che prevedeva prove congiunte con uomini e donne che preparavano le loro esibizioni. Si fanno, è vero, i colloqui interni, ma solamente con le mogli o le fidanzate ufficiali anch’esse recluse.
Il mio colloquio preferito all’interno del carcere è con la Zia, quando, in redazione, beviamo insieme un bel caffè offerto puntualmente da uno dei redattori. Lei, forse, è l’unica che, dopo il suo lavoro, sceglie di venire a bere un buon caffè in nostra compagnia. Sicuramente può vantare un primato da Guinness: è “la volontaria che ha bevuto più caffè preparati in cella da un detenuto”. È il minimo che possiamo offrirle dopo dieci anni di colloqui, dibattiti ed impegni non previsti.
Ironizzando: il carcere è una grande caffettiera e noi siamo i suoi chicchi di caffè, pronti ad essere macinati prima di poter uscire, per poter gustare l’aroma della libertà. Ma prima che ciò avvenga, non ci dispiacerebbe se qualcuno dall’esterno, preferibilmente donna, scegliesse il nostro bar per un colloquio spensierato, divertente ed originale.

Pasquale Acconciaioco

 L’altra metà del cielo a quadretti

Sono detenuto da oltre 11 anni ed insieme a me è detenuta anche mia moglie. Per l’esattezza la mia seconda moglie. L’ho conosciuta in libertà e con lei ho convissuto due anni fino a quando siamo stati entrambi arrestati.
In un primo momento non potevo vederla e incontrarla perché eravamo reclusi in due differenti istituti. L’unico contatto era rappresentato dalla corrispondenza e dalla telefonata settimanale di 10 minuti. La distanza fisica ci pesava moltissimo, ma ciò nonostante non abbiamo mai pensato, neanche per un minuto, di interrompere il rapporto di coppia che, piano piano, cercavamo di costruire. Certo la sua assenza mi ha molto pesato e la solitudine in alcuni casi ha preso il sopravvento. Fortunatamente potevamo scambiarci pensieri ed emozioni in lunghissime lettere piene di sentimento e di sensibilità, con cui cercavamo di farci forza l’un l’altra. Due anni dopo, grazie alla mia caparbietà, sono riuscito a farmi assegnare al carcere in cui lei si trovava: avremmo quindi potuto vederci al colloquio!
La prima volta che ci siamo visti eravamo tutti e due emozionatissimi al punto che non riuscivamo a parlare, ci tenevamo per mano illudendoci che il tempo per stare insieme non sarebbe finito. Purtroppo in carcere c’è un muro che ci separa. Lei nella sezione femminile e io in quella maschile. Ogni colloquio ci proietta al di fuori della cinta muraria, ai programmi che coltiviamo per il futuro e per poter tornare ad essere una coppia felice. In questi 11 anni di detenzione il ricordo più bello che conservo nel mio cuore è stato il momento in cui siamo riusciti a mantenere la nostra promessa d’amore e ci siamo sposati civilmente, proprio qui dentro.
Al matrimonio parteciparono i nostri parenti ed alcuni volontari a cui sono particolarmente legato e che ci hanno fatto da testimoni. Dopo la cerimonia ci fu anche un piccolo rinfresco come se il nostro fantastico giorno ci avesse proiettato già in libertà. Poi però è terminato tutto in fretta e siamo mestamente ritornati, con i piedi per terra, nelle nostre differenti sezioni. La realtà l’avremmo voluta scacciar via; eppure esiste e ci impone di proiettare i nostri progetti di vita insieme in un futuro che ormai è sempre più prossimo. Oggi durante i nostri colloqui settimanali è questo l’argomento delle nostre discussioni. Il nostro amore c’era, c’è e soprattutto ci sarà quando potremmo realizzarlo appieno in libertà.

Filippo Milazzo