Questione di asterischi

Lasciamo cambiare la lingua, ma non usiamole violenza

 di Pietro Casadio
della Redazione di MC, insegnante di italiano

 Diciamolo con sincerità, per un prof di italiano correggere i temi è una faticaccia, a detta di molti la parte peggiore del lavoro di docente, posizione contesa in tempi recenti da una sempre più invadente “burocrazia”.

Il povero insegnante, che vede accumularsi i temi sulla propria scrivania, sa che, presto o tardi, giungerà il giorno in cui dovrà affrontarli. E mentre cerca spasmodicamente attività da fare per rimandare l’ora funesta, nutre una granitica certezza: quando aprirà le opere dei suoi studenti, vedrà cose «che voi umani non potreste immaginarvi».
Già alla fine del mio primo anno di insegnamento, avevo collezionato un’interessantissima serie di errori, figli della fervida fantasia che solo gli studenti possono avere. Avrei potuto, ed esempio, enumerare almeno dieci modi diversi in cui veniva scritto un po’. Tuttavia solamente l’anno scorso, correggendo dei testi di quarta superiore, mi sono imbattuto in alcune scelte linguistiche che non si possono configurare come errori, ma che mi lasciano comunque un po’ perplesso. Una ragazza, col piglio deciso della femminista, mi ha scritto un testo in cui utilizzava l’asterisco come desinenza generica, evitando quello che in grammatica si chiama “maschile indifferenziato”. Per capirci, anziché scrivere “Tutti noi”, ha ad esempio scritto “Tutt* noi”.

 La comparsa della schwa

Questo utilizzo dell’asterisco, che avrebbe probabilmente fatto venire un infarto all’inventore di questo segno, il puntiglioso filologo Aristarco di Samotracia, nasce come una forma di rispetto anti-sessista all’interno della cosiddetta “teoria del gender”: l’asterisco, in quanto simbolo senza genere grammaticale, permetterebbe di raccogliere dentro quel “Tutt*” le persone di identità maschile, quelle di identità femminile, e anche coloro che non si sentono parte né dell’una né dell’altra categoria. Per far fronte alla prima immediata critica sull’impossibilità di leggere ad alta voce l’asterisco, la comunità LGBT ha recentemente proposto l’utilizzo della schwa (il simbolo è questo: ə), una lettera proveniente addirittura dall’alfabeto ebraico che si legge come le ultime due vocali del napoletano mammeta.
Che sia asterisco, schwa o chissà cos’altro, l’utilizzo di questi segni mi lascia, dicevo, un tantino perplesso. Non che io sia un purista della lingua, ci mancherebbe, la lingua cambia ed è giusto che cambi, ma non vorrei che questo estremo politically correct grammaticale dia alla nostra meravigliosa lingua una tinta sbadita, anonima. Del resto la stessa parola schwa significa (scusate il gioco di parole) “insignificante”. Mi chiedo: non è che a forza di cercare un linguaggio che non faccia torto a nessuno e cancellarne ogni possibile identità sessuale, si finisca per parlare una lingua insignificante senza alcuna identità? E ancora: davvero l’assenza di identità è la risposta alla necessità di accogliere la personale identità di ciascuno di noi? Dubbi che lascio nelle mani dei miei sapienti lettori. 

 La cultura e la lingua

La questione, comunque, è ampiamente dibattuta e lo scontro tra le parti produce, come sempre nel nostro Bel Paese, una gran caciara. Il problema, credo, va inserito in un quadro più ampio e contestualizzato all’interno di una domanda che riecheggia il paradosso dell’uovo e della gallina: nasce prima la lingua o la cultura? Ecco, io sono piuttosto convinto del fatto che sia la cultura che deve fare la lingua e non viceversa. Bisogna lasciare che un po’ alla volta, come l’acqua leviga lentamente le rocce, la lingua venga modellata e trasformata partendo dalla cultura, con strati che rimangono più antichi e covano la tradizione, con il suo bene e il suo male, e strati che si rinfrescano, proponendo soluzioni nuove che possono piacere o non piacere.
Fa dunque parte del gioco, e di questo schema, la presenza di qualcuno che propone soluzioni diverse e diversificate, come l’asterisco e compagnia bella. Linguisti e ideologi potranno darsi battaglia (a colpi di penna) sulle ragioni del sì e del no, ma alla fine, probabilmente, sarà la gente a decidere, sarà cioè la cultura a trovare una soluzione “perfetta”, quella che cioè unirà nel modo più economico possibile (linguisticamente parlando) l’ideologia, la praticità e pure l’estetica, perché anche l’orecchio vuole la sua parte.
Ai più esperti lettori di Messaggero non sfuggirà il fatto che sto scrivendo un articolo sugli asterischi eccetera eccetera, asserendo l’inutilità di scrivere articoli sugli asterischi eccetera eccetera. Questa malevola obiezione ha tutte le ragioni di essere posta, ma per salvare il mio buon nome porterò, a mia difesa, due valide argomentazioni. La prima è che ho saltato l’ultimo incontro redazionale di Messaggero Cappuccino e i miei (infidi) colleghi mi hanno appioppato un articolo “alla traditora”, approfittando della mia assenza. Ora mi tocca farlo ed è quello che sto facendo. La seconda è che, in effetti, una cosina da dire c’è, e anche piuttosto importante.

 Per una Pentecoste grammaticale

È sottile, appena percepibile, la linea di demarcazione che intercorre fra una cultura che, in modo naturale, cambia e modifica la lingua e il tentativo - operato dal potere, seppur ammantato da altissimi ideali - di modificare la lingua per modificare la cultura. Usare cioè la lingua come instrumentum regni perché la lingua è (in senso letterale quanto figurato) nella bocca di tutti ed è capace di lavare il cervello meglio della visione ininterrotta delle trentacinque stagioni di “Beautiful”.
Ecco, quando accade questo, accade qualcosa di molto pericoloso. La storia tutta e in particolare quella del Novecento ci ha mostrato la pericolosità del “forzare” una lingua per nascondere o mascherare o far cadere nell’oblio o portare alla ribalta qualcosa o qualcuno. Basta pensare alla dittatura della parola nel fascismo italiano o all’assenza della parola “morte” nei documenti nazisti riferiti allo sterminio degli ebrei e degli indesiderati, definito eufemisticamente “soluzione finale” o “trattamento speciale” (e ad Auschwitz i prigionieri ufficialmente morivano per “arresto cardiaco”, non per la camera a gas). E tanto per ricordare l’attualità del problema, non può non venirci in mente “l’operazione militare speciale”, come Putin si ostina a definire l’orrida guerra lanciata in Ucraina, o il fatto che nella vicinissima Turchia ancora oggi chi parla di “genocidio armeno” è punibile con il carcere da sei mesi a due anni per “vilipendio dell’identità nazionale”. La Storia è piena, strapiena di esempi come questi, dagli antichi Egizi al 2022. Violentare la lingua è qualcosa di grave e terribile perché significa violentare i pensieri e le emozioni delle persone, violare la loro intimità. Ecco, davanti a quella soglia dobbiamo fermarci. Lasciamo che la cultura accolga o rigetti gli asterischi o le schwa, senza forzare la lingua, senza usarle violenza, senza imporsi. Anche da un punto di vista grammaticale abbiamo la possibilità, come cristiani, di cercare l’unità nel rispetto delle diversità, evitando la visione monolitica del totalitarismo e meravigliandoci della fantasia linguistica della Pentecoste. E degli studenti.