Corpo, se ci sei, batti un colpo
Nel conflitto ideologico sull’identità di genere, bisogna recuperare il valore del corpo
di Gilberto Borghi
della Redazione di MC, insegnante di religione
Nel mese di giugno, su un noto network di canali televisivi, faceva parecchi passaggi uno spot che pubblicizzava una trasmissione sul “pride”.
Ormai non più “gay pride”, ma soltanto “orgoglio”. Orgoglio di essere me stesso, in qualsiasi forma questo si dia. E, ovviamente, al centro della scena dello spot, c’era una persona, con caratteri biologici (Dna) maschili, ritmo e tono di voce chiaramente tendenti al femminile, e con abbigliamento, movenze e accessori del look appartenenti ad entrambe le terminazioni sessuali, o a nessuna delle due, come si preferisce.
Sempre a giugno, ho corretto per mestiere elaborati di ragazzi e ragazze diciottenni, in cui mi ha colpito come per alcuni di loro sia ormai consuetudine, in onore al “politicamente corretto”, la sostituzione delle lettere finali delle parole di genere maschile e femminile con un asterisco. Alla mia domanda sul perché di questa scelta, la risposta, piuttosto risentita per il semplice fatto che io avessi osato chiedere, è stata «io rispetto profondamente le persone».
Qualche importante novità
Piccoli segnali, ormai diffusissimi assieme a tanti altri, che ci segnalano come sulla questione del rapporto tra sesso e identità, che ci piaccia o no, le cose siano già profondamente cambiate. Fino agli anni Ottanta circa del XX secolo, si dava per assodato che il sesso biologico, cioè la presenza nella persona di cromosomi X e/o Y, con tutto ciò che questo comporta a livello biologico-ormonale, strutturasse da solo l’identità di genere, il fatto cioè di sentirsi uomo o donna e definisse anche il conseguente orientamento sessuale, cioè la direzione verso cui si muove la nostra attrattiva sessuale.
Poi gli studi di carattere psicologico e sociologico ci hanno permesso di cogliere due cose diverse. Intanto che esiste un quarto costrutto che oltre al sesso biologico, all’identità di genere e all’orientamento sessuale, entra in gioco a definire l’identità della persona: il ruolo di genere, cioè l’insieme delle aspettative che la società ha sul comportamento di una persona, per il fatto di avere una certa appartenenza di genere e un certo sesso biologico.In second
o luogo, ancora più rilevante, abbiamo scoperto che i passaggi evolutivi che vanno dal sesso biologico con cui si nasce, alla costruzione della propria identità piena, attraverso questi quattro costrutti, non sono mai un dato puramente naturale, ma sono sempre mediati dai processi socio culturali, in cui una persona vive. Perciò ci siamo resi conto che se una persona nasce con un determinato sesso biologico, può accadere che la sua identità di genere non corrisponda ad esso e che il suo ruolo di genere nella società non sia ciò che gli altri si aspetterebbero da lui, soprattutto rispetto all’orientamento sessuale.
Mediator non porta pena
Quello a cui, però, stiamo assistendo ora è che queste acquisizioni, che hanno una buona consistenza scientifica, vengano estremizzate ideologicamente. Da un lato infatti si vedono fenomeni di radicalizzazione della costruzione della propria identità, in cui il dato biologico di partenza è completamente e volutamente ignorato e il ruolo di genere fortemente combattuto, fino a dichiararne l’inammissibilità sociale, il tutto a favore esclusivamente dell’identità di genere, cioè solamente della percezione soggettiva, vista come unico fondamento “non negoziabile” del mio essere persona. Della serie io sono ciò che sento di essere. E basta.
Dall’altro lato, all’opposto, assistiamo alla negazione dell’influenza dei dati socio culturali sulla costruzione dell’identità, dichiarando l’invalidità delle acquisizioni scientifiche post anni Ottanta, perché sarebbero tutte inquinate da un presupposto ideologico. L’identità della persona, perciò, sarebbe fondata esclusivamente sui dati biologici e ormonali, e tutte le varianti che non rispettano tale dato sarebbero costruzioni identitarie non rispettose della persona umana. Inutile negare che la lotta, attualmente molto accesa e conflittuale, tra queste due estremizzazioni inquini il clima culturale e renda impossibile un discorso sereno e scientificamente fondato sul rapporto tra sessualità e identità. Il che rende non percepibile con lucidità qualsiasi discorso si faccia. E se uno cerca di mantenersi aderente ai dati di realtà e a ciò che oggi la scienza è in grado di certificare (in verità, purtroppo, ancora troppo poco), viene immediatamente giudicato, dalle due estremità del campo comunicativo, come alleato della fazione opposta.
Ben consapevole, perciò, di questa situazione credo che la questione radicale non sia tanto a chi dare ragione, ma cercare di cogliere cosa sta muovendosi sul nostro fondo socio-culturale e che forse giustifica entrambe le polarizzazioni in gioco. Perciò mi chiedo: come mai questa estremizzazione avviene in concomitanza con l’ingresso nell’epoca post moderna? Esiste un nesso tra le due cose? Ovviamente credo di sì. La post modernità si caratterizza, tra le altre cose, per almeno due elementi connessi con la costruzione dell’identità. Intanto il chiaro tentativo di destrutturare radicalmente i ruoli sociali, ridefinendoli in base al valore di scambio (il mercato) e non più in base al valore del servizio che essi svolgono nella società. Questo fa sì che il riferimento valoriale che li giustifica e li conforma non sia più la relazione sociale, e in essa, l’apporto che essi danno allo sviluppo delle persone, ma solamente la quantità di potere economico che essi generano nel loro esercizio. Al posto del servizio alla persona, i ruoli sociali hanno valore per la ricchezza soggettiva che producono. La persona perciò smette di essere il fondamento ultimo della costruzione sociale e la sua identità non è più connessa all’appartenenza all’umano, ma solo al grado di ricchezza che può produrre.
In secondo luogo, la post modernità è l’epoca in cui si teorizza e si vive il primato del sentire sul pensare. Sul piano antropologico, l’identità della persona è oggi strettamente connessa a ciò che io sento, vivo, percepisco, molto prima e molto di più di ciò che io penso. L’ideologia come contenitore sociale capace di conferire identità ha lasciato il posto al vissuto sensoriale, ma sganciato dal controllo razionale, che non ha più alcun potere di conferirgli senso, valore e quindi anche valutarlo. Ogni esperienza vissuta ha lo stesso valore delle altre e si differenzia solo per l’investimento soggettivo che in essa l’individuo tende a caricare. L’identità perciò non è più connessa all’unità “globale” della persona, nell’equilibrio possibile tra mente, cuore e corpo, ma all’intensità, varietà e ampiezza delle esperienze vissute.
Valore, non strumento
In questa condizione culturale femminile e maschile diventano funzioni del mercato e dell’esperienza soggettiva, sganciandosi radicalmente dalla loro radice umano-naturale, che troverebbe, invece, nel corpo il luogo di definizione e di sviluppo. E così appare evidente come sia proprio l’espulsione del corpo dal suo ruolo di fonte di valore e di indicazioni di sviluppo, che rende possibile immaginare che oggi le identità debbano essere plurime, sfumate, senza confini netti, in cui femminile e maschile siano sempre rinegoziabili, in favore del mercato e della moltiplicazione ed espansione delle esperienze soggettive.
Ma a ben guardare, questa espulsione del corpo dal suo ruolo di valore identitario primordiale non ha inizio negli anni Ottanta. Una parte consistente del terreno di coltura su cui ciò si è impiantato ed è cresciuto deriva da molto lontano, all’interno della tradizione cattolica, da una inclinazione non evangelica, ma neoplatonica che dal terzo secolo in poi ha fatto clima teologico. Così, per almeno sedici secoli, noi abbiamo continuato a dire che l’anima è il valore essenziale dell’uomo e il suo corpo né il servitore (l’asino di san Francesco). Per almeno sedici secoli abbiamo sostenuto che l’anima femminile e quella maschile non avevano alcuna differenza e che l’essere sessuato, come frutto della creazione di Dio, aveva come senso giustificatorio solo quello di poter procreare.
Non possiamo meravigliarci oggi se, tolto di mezzo il riferimento a Dio, la cultura laicista di taglio radicale (LGBTQA+ per intenderci) ha proseguito questa linea affermando che nascere maschio o femmina non ha alcuna influenza sulla propria identità. E che l’essere uomo o donna è un costrutto totalmente soggettivo.
Ad accomunare, perciò, i campi della battaglia ideologica, ben al di sotto delle apparenze, c’è in comune il disvalore del corpo non percepito, né pensato, come prima parola autoritativa data all’uomo dalla natura (da Dio per chi ci crede), e il continuare a relegarlo a puro strumento: sala giochi per gli uni, strumento riproduttivo per gli altri. Da qualsiasi delle due parti ci poniamo, se non recuperiamo il valore fondativo del nostro corpo, rischiamo il più grave dei danni antropologici: la corrosione e la perdita del concetto di persona.
Dell’Autore segnaliamo:
Dio, che piacere! Per una nuova intelligenza cristiana dell’eros
Edizioni San Paolo 2018, pp. 224