Ricordiamo qui un grande missionario con addosso l’odore delle pecore, Adriano Gattei. Per quindici anni (1955-1970) missionario in India (Lucknow) e poi per quasi trent’anni in Etiopia (1970-2008). Indefesso costruttore di chiese e di comunità cristiane, sempre al servizio generoso dei suoi cristiani.
a cura della Redazione di MC
Ricordando fr. Adriano Gattei
L’uomo dell’acqua, delle pietre e delle stelle
Poggio Berni (Rn), 6 maggio 1929
† Reggio Emilia, 22 aprile 2022
Padre Adriano, nativo di Poggio Berni, entrò nel 1945 nel noviziato dei cappuccini di Cesena; l’8 settembre 1946 fece la sua prima professione e nel 1950 la professione perpetua. Dopo gli studi di filosofia e teologia, fu ordinato sacerdote il 3 aprile 1955. Il 30 novembre dello stesso anno partì missionario in India.
In India
La sua vocazione missionaria era nata, come lui stesso ha rivelato, da un libro intitolato Sulle rive del Gange, scritto da un missionario cappuccino. Lo aveva letto proprio quando nel 1940 entrò nel seminario di Imola: «Mi piacquero moltissimo i racconti di vita missionaria che vi trovai e così cominciai a leggere sempre di più libri che parlavano di missione e, ogni volta che ritornava qualche missionario dall’India, cercavo di parlare con lui e lo interrogavo. Così cresceva piano piano in me la vocazione missionaria» (MC 2008/06, pag. 37).
La missione di Lucknow era situata in un territorio dal clima torrido, con temperature che in estate raggiungevano anche i 45-50°. Piogge monsoniche imponenti rendevano isolate le stazioni missionarie per la mancanza di ponti sui fiumi. L’annuncio del vangelo conosceva mille difficoltà e i cristiani, una trascurabile presenza nella popolazione, appartenevano alle classi infime della società. Padre Adriano svolse il lavoro apostolico in varie stazioni della missione, come nella sperduta e isolata Bana, a Bazpur, a Adrianpur (Dhamola), a Kathgodam, a ridosso dei monti della catena dell’Himalaya, e a Naini-Tal.
Così è scritto sulla presenza di padre Adriano ad Adrianpur: «Il padre Adriano ha lavorato alacremente per stabilirvi la dimora del missionario. La vecchia e piccola casa fu demolita per dare luogo alla nuova costruzione a due piani, ampia e arieggiata, che serve da cappella, da granaio e da scuola del villaggio. Durante i lunghi mesi della sua costruzione il padre Adriano è vissuto sotto una capanna, esposto alle intemperie e alla mancanza delle più elementari necessità: persino l’acqua da bere era l’acqua per l’irrigazione, e tutti sappiamo come sono usati i canaletti nei villaggi! Ma se il sacrificio e le privazioni logoravano il fisico di padre Adriano, la soddisfazione di sentirsi missionario e pioniere lo legava sempre più al suo caro Adrianpur» (Bollettino provinciale 1968, pag. 39).
Nell’aprile del 1970, i cappuccini bolognesi decisero di lasciare la Missione di Lucknow per consegnarla alla diocesi e padre Adriano chiese di trasferirsi nella nuova missione del Kambatta-Hadya in Etiopia.
In Kambatta-Hadya
Partì alla volta della nuova missione nel settembre dello stesso anno assieme al padre Anastasio Cantori e loro due ne furono i primi missionari. Si stabilirono nella stazione missionaria di Ashirà, dove padre Adriano rimarrà qui per circa trent’anni. Allora non vi erano strade e occorreva muoversi a dorso di mulo, quando era possibile, perché, al sopraggiungere della stagione delle piogge, era pressoché proibito muoversi a causa del terreno fangoso. Adriano non era una gran parlatore, né tentava di esserlo. Si accontentava di pochi concetti, chiari e solidi, e su quelli fondava la sua opera evangelizzatrice. Le sue omelie erano ripetitive di due concetti base: «Dio è grande e misericordioso, e noi siamo tutti fratelli». Se poi a queste parole aggiungeva anche i gesti, allora l’effetto era assicurato. La gente non si stancava di ascoltarlo, perché seguire le sue parole era facile per tutti, grandi e piccoli. Dalle poche parole che pronunciava passava ai molti fatti che scandivano la sua giornata, spesa a vantaggio della popolazione. Il lavoro manuale era cònsono alle sue ruvide mani e lo terrà occupato per tutti gli anni in cui è vissuto ad Ashirà.
Costruttore di acquedotti
Due le opere che aveva programmato: rendere disponibile acqua pulita per la missione e per i villaggi, e costruire una grande chiesa. Ecco quello che ha lasciato scritto: «Trent’anni fa, quando sono arrivato ad Ashirà, andavamo ad attingere acqua al fiume e la filtravamo; ma la componente liquida passa lo stesso e quindi si beveva quello che c’era. La mia prima preoccupazione in quel periodo fu di trovare acqua potabile per la missione, per la gente, per il dispensario e per la scuola. Inizialmente pensai di scavare un pozzo, ma non vi erano strade per fare arrivare il camion con la trivella e i ponti erano di legno e troppo deboli. Questo inconveniente è stata la mia fortuna, perché mi sono messo alla ricerca di una sorgente, e poco dopo l’ho trovata a tre chilometri dalla missione. Da lì con dei tubi potevo portare l’acqua alla missione per caduta. Cominciammo i lavori ed ebbi molti fastidi dalla gente: credevano che io rubassi la loro acqua. Diverse volte ho trovato l’acquedotto in costruzione rotto, ma dopo tre mesi sono riuscito a portare l’acqua in missione. L’anno successivo ho portato l’acqua in paese, e, visto che sono di Rimini dove sgorga la sergente “sacramora”, ho chiamato “sacrabionda” l’acqua di Ashirà. Da allora la gente mi porta alle stelle: anche altri villaggi hanno voluto l’acqua e dove è stato possibile ho fatto altri acquedotti» (MC 2000/05, pagg. 34-35).
Costruttore di chiese e di comunità
L’altro impegno lavorativo di padre Ariano è stata la costruzione di chiese e di cappelle. Così scrive a tale riguardo: «Quando sono venuto, c’erano tre chiesette in tutta la missione, adesso sono circa 40 e le ho costruite tutte io: in muratura sono solo due, le altre sono di legno, metà coperte con le lamiere e metà coperte con la paglia. Tutti le vorrebbero con le lamiere, ma costano di più; pian piano riuscirò a farle tutte coperte con le lamiere. So bene che in Italia una capanna in lamiera è un pollaio, ma qui è una cosa di lusso» (MC 2000/05, pag. 36). Ma era soprattutto la chiesa di Ashirà che costituiva il suo orgoglio: «Ad Ashirà, con l’aiuto del vescovo, di tanti benefattori e della popolazione che da vent’anni insisteva e collaborava, abbiamo costruito questa chiesa che tutti chiamano “cattedrale”: è 888 metri quadrati e ci sono dentro 280 panche; la domenica vengono celebrate due messe, e la chiesa nelle feste si riempie sempre. Dicono che è la chiesa più grande dell’Etiopia. I fedeli della parrocchia mi hanno aiutato molto: per livellare il terreno abbiamo lavorato due anni, spostando tonnellate e tonnellate di terra con barelle, e ogni villaggio si è impegnato sia lavorando, sia raccogliendo offerte ogni domenica. Sentono che è la loro chiesa» (MC 2000/05, pag. 36).
Nel 1981 padre Adriano passò qualche mese in Tanzania e tentò di apprendere anche la lingua locale, lo swahili; ma poi si convinse a fare ritorno alla sua missione del Kambatta, ad Ashirà, dove rimarrà fino al 1999.
In Dawro Konta e poi in Italia
Fu in questo anno che si trasferì nel vicino Dawro Konta, al di là del fiume Omo, dove da circa due anni si erano portati altri confratelli del Kambatta per dare inizio a una nuova missione. Il territorio si presentava povero, con malaria, denutrizione e infezioni, che mietevano numerose vittime. Gassa Chare, dove i missionari si erano stabiliti, era situata su una collina ventosa, e questi pionieri si erano accontentati di vivere dapprima in una capanna di lamiera, per poi costruire una dimora più dignitosa, fatta di legno e cicca (fango). In seguito avevano fondato numerose comunità cristiane, quasi tutte dotate di una piccola cappella per celebrarvi la liturgia, e di tutto ciò che era indispensabile per offrire un aiuto alle popolazioni. Padre Adriano divenne membro della fraternità di Gassa Chare e lì rimase fino al suo rientro definitivo in Italia, nel 2008.
Fu destinato alla fraternità di Santarcangelo di Romagna, e qui si impegnò nei servizi pastorali e nel ministero del confessionale. Non si lasciava sfuggire l’occasione di raccontare, con abbondanza di particolari, le sue esperienze missionarie, sia indiane che africane. Gli era di supporto la voce, sempre potente come il suono di una tromba. Dieci anni è rimasto a Santarcangelo, dove piano piano tutti i volti familiari di una volta stavano perdendo nella sua memoria i loro contorni. Il suo ottimismo e la sua cordialità non sono però mai venuti meno e ne rendevano piacevole la compagnia.
Nel 2018 fu deciso di trasferirlo nell’infermeria provinciale di Reggio Emilia. La memoria e l’udito si erano molto affievoliti, ma non la voce, sempre potente. Ci ha lasciato il 22 aprile. Ricordiamo con ammirazione questo missionario di lungo corso, che aveva addosso l’odore delle pecore.
fr. Nazzareno Zanni
La messa del commiato cristiano e fraterno, presieduta da fr. Matteo Ghisini, vicario provinciale, è stata celebrata nella nostra chiesa di Santarcangelo, e ha visto la partecipazione di vari confratelli provenienti soprattutto dai conventi più vicini. La salma è stata poi inumata nel camposanto locale. Una messa a ricordo di padre Adriano è stata celebrata anche domenica 1° maggio nella sua chiesa di Ashirà, con una partecipazione davvero straordinaria della gente che mai lo aveva dimenticato.