Non prendiamoci in giro

Nell’editoriale del MC 2 2012 (febbraio) mi ha stimolato alcune riflessioni la declinazione della “solidarietà”: a vicini e lontani per spazio, cultura e ceti. Quale solidarietà, quanta e tra chi? Siamo vissuti sopra le possibilità del paese? Io non me ne sono accorto e così 50 milioni di italiani, che stanno consumando risparmi e liquidazioni per non scostarsi troppo dall’usuale tenore di vita. Ma perché? Usciamo dal soggettivo e vediamo i dati di Bankitalia, Istat e OCSE.

Dal 2001 il potere d’acquisto delle famiglie si è ridotto del 39%. Gli italiani guadagnano metà di tedeschi e olandesi. Italia al 23° posto su 30 per potere d’acquisto del salario medio; 6° posto per gap ricchi/poveri (+33% dagli anni ’80). Salari e stipendi più bassi d’Europa; compensi a dirigenti e politici più alti. Il 10% delle famiglie italiane possiede il 44,7% della ricchezza (dati 2008, ora sembra 49%).

Tuttavia migliaia di famiglie italiane continuano a sostenere le adozioni a distanza nei paesi poveri. Contemporaneamente (2007-2010) sono aumentati gli affamati del mondo, come previsto, da 840 milioni a oltre un miliardo, grazie alla crisi finanziaria e a chi si è divertito e arricchito a speculare sui prezzi alimentari mondiali, con scommesse sull’aumento. Vediamo come la solidarietà non basta se non è istituzionalizzata.

Allora quale solidarietà? Viene in mente la beneficenza come la intendevano i nobili del ’600: attinta dal superfluo, dopo villae et castella, carrozze e “bravi” a difesa. Oggi infatti viene richiesta una “solidarietà tra poveri”: il piccolo ceto medio dia e le ricchezze restino inossidabili. Forse perché, senza ricchezze che li distinguano, i ricchi perderebbero il gusto e il senso della vita?

L’editoriale cita le lacrime del ministro del welfare nell’annunciare la sospensione dell’adeguamento all’inflazione delle pensioni per il 2012 e 2013; che F. Galimberti, sul Sole24ORE dei primi di gennaio, giudica molto dura (ma la approva), scrivendo che l’Italia è il solo paese a non avere le pensioni legate o alla dinamica dei salari o all’inflazione. Ma la mossa è stata studiata appositamente prevedendo un’inflazione superiore a quella registrata gli scorsi anni. Per il 2012 sono state salvate le pensioni d’importo mensile fino a 1.404 €, che rappresentano il 78%. Quasi tutti! Ma è facile rientrarci: solo negli ultimi 15 anni le pensioni hanno perso il 30% del potere di acquisto (l’adeguamento all’inflazione è insufficiente). Quindi le pensioni “buone” sono divenute povere. È ragionevole che non si faccia differenza tra chi riceve ora una pensione mensile di 2-3.000 € e chi ne riceve 10.000 € o più?

In un paese dove l’evasione fiscale e il riciclaggio di denaro rappresentano quote ingenti del PIL, con quale faccia il governo limita i vitalizi a persone che, per definizione, non possono più produrre redditi, né scioperare? Forse allora le lacrime del ministro non sono segno di sensibilità o all’opposto “da coccodrillo”, bensì di vergogna. Anche perché lei sa bene che dai 16,7 milioni di pensionati provengono imposte per un ammontare pari a 1,5 punti di PIL.

Sono occorsi due mesi prima che il presidente dell’Inps ci rivelasse in tv che la spesa pensionistica italiana è in linea con gli altri grandi paesi europei; contraddicendo così quanto affermato con grande risalto dal governo. Infatti in Italia, diversamente da altri paesi, l’Inps provvede anche all’“assistenza”, quindi i maggiori costi sono imputabili a tale funzione. I conti pensionistici sono in ordine.

Gli economisti comprendono che un progetto generale socialmente condiviso è condizione per la produttività del paese? Il mio barbiere dice che è molto semplice uscire dalla crisi: il governo chieda i soldi necessari per metà a quel 10% di famiglie privilegiate e per l’altra metà al rimanente 90%. Aggiungo io che così si rispetterebbe l’art. 53 della Costituzione, verso cui la “equità” pronunciata dal Governo suona finora come insulto.

Saverio Bonazzi - Bologna