La teologia dell’aragosta

 di Dino Dozzi
Direttore di MC

 L’aragosta sta diventando di moda anche tra i teologi. Non so se anche a tavola. È per via del fatto che essa nasce nuda, poi si costruisce una corazza che la protegge. Ma ecco che lei cresce e la corazza si fa stretta, tanto che l’aragosta se la toglie e se ne costruisce un’altra più adeguata. E avanti così. Il metodo dell’aragosta piace ai teologi. Più esattamente ad alcuni di loro, non proprio a tutti. Ci sono quelli che pensano alla teologia come ad un prodotto rigido e fisso, valido per ogni tempo, dove cambiare significa tradire. Ma ci sono anche quelli che intendono la teologia come «discorso su Dio in dialogo salvifico con gli uomini di ogni tempo e di ogni luogo». Dio può anche restare fedele a se stesso “ieri, oggi e sempre” - ammesso che l’amore permetta di restare immutabili - ma la controparte, cioè gli uomini dei vari luoghi e dei vari tempi, cambiano continuamente e quindi deve cambiare anche la descrizione del loro rapporto con Dio e di Dio con loro.
Teologi come Marcello Neri sottolineano il fatto che la teologia contemporanea sembra essere incapace di dirsi/darsi al di fuori di codici oramai superati che la chiudono elitariamente in se stessa, senza capacità di apertura popolare verso la condizione effettiva della vita umana. Anche quando è praticata nelle università, la teologia ha assunto la forma di un sapere privato alla doppia potenza: vive di un gergo per iniziati e si destina sostanzialmente al proprio autoconsumo e autogiustificazione. Per non parlare poi della teologia ruspante delle prediche domenicali, con la sua routine da pio sonnifero, rinforzato da alcuni novelli “maestri” che moltiplicano a dismisura i tempi omiletici pensando così di contribuire efficacemente alla salvezza del mondo.
La corazza è diventata troppo stretta, invece di proteggere imprigiona, è ora di cambiarla. Ma perché cambiare se abbiamo la verità? Ecco il principale ostacolo. E papa Francesco - a cui pare piaccia molto il metodo-aragosta - mette in guardia dal trionfalismo e dal clericalismo, che non riguardano solo i chierici e che ci entrano dentro quando crediamo di avere la verità in tasca. E si sviluppa allora la hybris, la superbia, il disprezzo degli altri, la prepotenza fino allo stupro: è significativo che in greco stuprare si dica hybrizein. È contro i pericoli ecclesiastici dell’autoreferenzialità, dell’intellettualismo, del “parlarsi addosso” pretenzioso, che si muove la “svolta” di Francesco con il suo invitare la Chiesa ad uscire. Perché restare dentro significa pensare che si è arrivati, quando invece la Chiesa è via da percorrere continuamente, cammino da fare insieme.
Insieme a chi? Ecco un altro punto da chiarire. Non solo insieme al piccolo gregge in diminuzione che frequenta le nostre messe, ma insieme a tutti gli uomini e a tutte le donne che oggi abitano la nostra casa comune. Dio vuole dialogare con e salvare tutti i suoi figli, non solo i cattolici, non solo i cristiani, non solo i credenti, ma proprio tutti, perché tutti - che lo sappiano o no - sono sue creature e suoi figli. La Chiesa, come segno e strumento di questo dialogo salvifico con tutti, deve quindi uscire dalle chiese per intercettare i problemi, le gioie e le sofferenze, le attese e le speranze di tutti e di ognuno. Ecco il senso del cammino sinodale.
La conseguenza del clericalismo e della chiusura ecclesiastica nel proprio hortus conclusus non è, come in passato, un mondo di atei che si scagliano polemicamente contro la Chiesa, ma qualcosa di ancor più preoccupante, è l’indifferenza del mondo per la Chiesa, la sua teologia e la sua liturgia. Come dicono alcuni amici, intelligenti anche se non eccessivamente pii, la Chiesa vada dove vuole, la gente sta andando tranquillamente da un’altra parte. Il cammino sinodale tenta di riaprire il dialogo, guidato ora un papa che invita i cattolici a «guardare agli altri cristiani per trovare in loro qualcosa di cui abbiamo bisogno»; che invita ad abbandonare i soliloqui per imparare a dialogare davvero con chiunque - agnostici, atei e amici poco pii compresi - ascoltando le critiche, prendendo seriamente le obiezioni. Che vengono soprattutto dall’esterno. Essenziale allora è riscoprire il cristianesimo come stile, stile di ospitalità, direbbe il teologo francese Christoph Theobald. Scrive san Francesco nella Regola: «Chiunque verrà da loro, amico o avversario, ladro o brigante, sia ricevuto con bontà» (FF 26). E l’altro Francesco, il papa, parla dello “stile di Dio” che i pastori della Chiesa devono sempre fare proprio, fatto di vicinanza, compassione e tenerezza.
Nonostante tutto, fortunatamente il protagonista principale del cammino sinodale è lo Spirito Santo, che non è a suo agio negli spazi chiusi, che soffia dove vuole, che è capace di scuotere dalle fondamenta i nostri cenacoli e di ridare vita a mucchietti di ossa aride. Ci viene chiesto di non porre troppi impedimenti alla sua azione rinnovatrice e vivificatrice. Inaugurando il sinodo, papa Francesco ha detto: «Lo Spirito ci guiderà e ci darà la grazia di andare avanti insieme, di ascoltarci reciprocamente e di avviare un discernimento nel nostro tempo, diventando solidali con le fatiche e i desideri dell’umanità». Quel grande studioso della storia che è stato Paolo Prodi sostiene che «la onnipresenza e la pervasività del diritto positivo in ogni aspetto della vita quotidiana ha bisogno del correttivo teologico per recuperare l’alleanza umanistica delle forze». Teologia cercasi. Ma cercasi anche discernimento sull’opportunità-necessità-urgenza di cambiare stile, per non rimanere prigionieri nella corazza dell’aragosta.