È come fosse domenica
Baby, è ancora presto, presto
È come fosse domenica
Sì domani poi vedrò
Come no

Domenica, Achille Lauro

a cura di Michele Papi

 
Todo cambia, anche Dio!

Sacro e profano: che cosa ci dicono i giovani?

 di Giordano Goccini
parroco di Novellara (RE)

  Nella prima serata del Festival di Sanremo 2022, il più importante concorso di musica pop italiana, il cantante Achille Lauro si è presentato sul palco cantando il brano “Domenica”,

accompagnato dalle voci del Harlem Gospel Choir di New York. L’artista si presenta a torso nudo, con un giglio in mano – accentuando con pose sensuali l’esibizione del suo fisico statuario – e canta il pezzo con voce ansimante. Al termine, con le voci gospel in sottofondo, inginocchiato, si versa dell’acqua sul capo mimando un Battesimo. La scena ha destato molto scalpore – come certamente era nelle attese degli autori del programma – e qualcuno ha gridato alla profanazione ma qui non ci interessa il clamore mediatico, né il giudizio morale sull’esibizione. Ci chiediamo invece: a chi stava comunicando l’esibizione di Lauro? Per dire che cosa?
Ad un adulto della mia generazione l’uso spregiudicato di frammenti rituali dalla liturgia può dare più o meno fastidio, a seconda delle sensibilità. Ma in ogni caso fatica a “dire” qualcosa. Mi sento come se un cinese urlasse nella sua lingua qualcosa nella mia direzione: non so a chi si rivolga, ma certo non a me. La stessa cosa vale per l’esibizione di Achille Lauro: c’è una intesa che si crea con i giovani della sua generazione. Gli altri non capiscono, servono solo per fare clamore.
Ai suoi coetanei Achille Lauro grida la voglia di autenticità che abita nei loro cuori; l’ansia di liberazione dalle costrizioni del vivere, da quel dover essere che avvolge la quotidianità e i ruoli sociali soffocando l’indole più profonda dell’io. Ecco che la domenica diventa un “simbolo di libertà” – ci dice, intervistato, lo stesso autore – «La vita come le montagne russe e quella giornata rappresenta uno stop, una pausa, un momento per sé stessi». Il segno del Battesimo – stridente e fuori luogo in una kermesse del genere – risulta tuttavia allineato al messaggio: un desiderio di liberazione, di purificazione, di catarsi. È interessante che, per esprimere questo desiderio, un artista distante dal linguaggio liturgico vada a pescare frammenti proprio dal repertorio di riti che non frequenta più.

 Il divorzio tra i giovani e il sacro (e la Chiesa)

Tutti gli studi di sociologia religiosa ci attestano l'espandersi della voragine che separa i giovani dalla Chiesa. Non si tratta più di una contestazione aperta, come all’epoca dei boomers (nati nei ’50-’60), semmai è un’indifferenza generalizzata per ciò che la Chiesa propone e per il linguaggio con cui lo fa. Sembra un dialogo tra sordi. A una Chiesa impegnata a difendere la verità sia nel campo della fede che in quello morale, i giovani rispondono con un nuovo criterio di autenticità: è vero ciò che sento. Non ha più valore una fede universale, una teologia verificabile, una morale coerente: vale piuttosto ciò che procura una intensità emotiva, una sensazione profonda, un’esperienza del mistero.
Alle nostre comunità spesso rintanate negli spazi sacri (nonostante gli slogan sulla chiesa in uscita che si moltiplicano…) e preoccupate di salvaguardare il tempo della festa dalle prevaricazioni del commercio e del profitto, i giovani rispondono con la loro ricerca di Dio che abita piuttosto gli spazi profani e il tempo feriale. A una Chiesa tutta protesa ad offrire sé stessa come strumento di mediazione tra Dio e gli uomini, essi rivendicano la possibilità di un incontro diretto con Dio, di un dialogo con Lui che, sebbene frammentato e incerto, non ha bisogno di intermediari. Così, davanti alla loro pretesa di una fede spontanea e schietta, crolla l’impalcatura del sacerdozio e dei suoi riti, dei sacramenti e dei segni di intercessione. Dio, per i giovani, è lì, vicino, benevolo, accogliente, aperto, senza bisogno di ambasciatori.
Ad una spiritualità tutta orientata alla vita nell’aldilà, che ripete la trita litania di questa “valle di lacrime”, le nuove generazioni contrappongono la pretesa di una vita umana gioiosa e il diritto ad esistere e manifestarsi nell’autenticità del proprio sé. Alla nostra tradizione che focalizza l’attenzione sulla pratica religiosa e sull’appartenenza ecclesiale, i giovani contrappongono il loro rapporto con la fede parziale e frammentato, uno stile credente che più che all’adepto si ispira al pellegrino. Infine – ma la litania potrebbe prolungarsi ancora – all’insistenza sull’etica e sui valori della verità e del bene, della giustizia e della morale, i giovani rispondono con un approccio più improntato all’estetica, dove il valore sommo è attribuito a ciò che è bello.
Così si tratteggiano due atteggiamenti religiosi assai differenti: da un lato quello tradizionale, che plasma la vita e la proposta delle nostre comunità; dall’altro la frammentata e incerta ricerca dei giovani che si snoda su nuovi modelli. La domanda a questo punto sarebbe non tanto se abbiano più ragione i giovani o la tradizione ecclesiale, ma quale stile Gesù abbia voluto per la sua comunità. E non c’è dubbio che lo stile che Gesù condivide con i suoi discepoli abbia più di un contatto con gli atteggiamenti dei giovani. E mette in discussione molti aspetti del nostro stile ecclesiale.

 Il ritorno del sacro

Se il repertorio del sacro è stato bandito dalla vita religiosa dei giovani, possiamo legittimamente chiederci come mai ne ritroviamo tanti frammenti nelle manifestazioni “profane”. Oltre all’esibizione citata sopra, pensiamo alle manifestazioni sportive dove abbondano segni di croce e sguardi imploranti al cielo. C’è un nuovo bisogno di sacro? Da dove ha origine?
Quello di cui osserviamo i resti non è il sacro tremendum et fascinans come lo intendevano i nostri padri. Potremmo dire che del tremendum non resta quasi nulla ed emerge solo il fascinans. Dio non fa più paura e lo spazio dell’incontro con lui non è più avvolto dalla nube del terrore e dalla paura della morte. Tutto quello che attiene alla sfera di Dio e all’incontro con Lui, agli occhi dei giovani, è avvolto di benevolenza e fascino. Egli è un Padre amorevole e accogliente e non c’è nessun motivo di temerlo. La sua presenza è desiderabile e fonte di gioia. Quindi il linguaggio del sacro non delimita più il territorio di Dio mettendo in guardia da un’eccessiva familiarità con Lui e aprendo lo spazio alla necessità di una mediazione (sacerdotale ed ecclesiale).
Tuttavia i giovani sentono forte le asperità della vita e percepiscono l’esistenza come un cammino incerto, che conosce improvvise accelerazioni e brusche frenate. È per rappresentare queste eccedenze, per penetrare nelle fratture, per interpretare gli improvvisi fasci di luce, che essi vanno a riesumare i frammenti di un repertorio sacrale. Gettato là su quel palcoscenico – in un luogo improprio e dissacrante – il Battesimo torna ad essere bagno di purificazione contro ogni ingerenza delle imposizioni sociali e possibilità di riappropriazione del proprio sé autentico. Per paradosso, ad accompagnare il cammino di liberazione dei giovani verso una identità più vera, sono proprio i segni del sacro e dell’universo religioso che essi rifiutano. 

 

Segnaliamo il volume:
Rita Bichi-Paola Bignardi
Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia
Istituto Toniolo, 2015