Tena Yistellign! «Che Dio ti dia salute attraverso di me»: con questo saluto tradizionale in lingua amarica, fr. Nicola Verde, da qualche mese missionario in Etiopia, inizia a raccontare i suoi primi passi nel cammino di condivisione della cultura del grande Paese africano dalla storia millenaria, dove convivono numerose etnie locali e ottanta lingue diverse, non sempre purtroppo in pace

a cura di Saverio Orselli

 Nel piatto unità e diversità!

Vicino, distinto, ma anche mischiato

 di Nicola Verde
missionario cappuccino nel Dawro Konta

 Pezzi di injera

Tena Yistellign! Qualche giorno fa ho scoperto che in Etiopia ci sono due tipi di injera (il tipico pane locale):

uno bianco e uno scuro, ed entrambi vengono fuori da due qualità diverse dello stesso cereale chiamato teff. Quello più scuro è ricchissimo di ferro. «Oh finalmente anche l’injera africana insieme a quella italiana!»: è stata la mia esclamazione mentre mi accingevo a prendere cibo in refettorio. Tutti i frati etiopi sono scoppiati a ridere e non avevano mai pensato che l’injera bianca potesse essere italiana mentre quella scura africana.
In Etiopia si fa un piatto unico durante i pasti. L’injera, essendo spugnosa e morbida, diventa la base sulla quale vengono messi qua e là i diversi wot (sughi) di carne e le diverse verdure più o meno speziate e condite col berberè piccante, un mix di spezie a base di cumino, aglio, cardamomo, pepe nero, porro, peperoncino piccante, zenzero, curcuma. Tutto è ben ordinato nel piatto ma tutto è vicino, tutto è distinto ma anche mischiato. I sapori si urtano, si mescolano e talvolta si confondono.
Tante volte ho avuto la tentazione di prendere due (o tre) piatti e fare le cose ‘per bene’, all’italiana: individuare un primo da mangiare da solo; cercare una specie di secondo (non è facile!) da mettere in un piatto da solo; scegliere un contorno di verdura per mangiarlo a parte. Ma ho sempre resistito a questa tentazione. Bisogna essere davvero bravi a tenere distinti i sapori dentro un unico piatto, senza che si perdano, e nello stesso tempo tenerli insieme perché l’uno dia sapore all’altro.
L’injera mangiata con le mani sembra fatta apposta per lo shirò, uno stufato omogeneo formato principalmente da polvere di ceci o fave. Viene spesso preparato con l’aggiunta di carni macinate e cipolle, aglio e, a seconda della variante, zenzero. O forse lo shirò sembra fatto apposta per l’injera (dicono che gli Etiopi vincano le maratone e le olimpiadi a forza di shirò fatto in casa, tra le montagne dell’altopiano, dalle nonne e dalle mamme!). L’una non può esistere senza l’altro. L’una senza l’altro non ha senso. L’injera senza shirò è sapore vuoto. Lo shirò senza injera è sapore perso, non ha chi lo prende. Insieme è sapore pieno.

 Sapore e struttura

Un pensiero molto bello, legato al cibo, dell’antropologo francese C. Lévi-Strauss dice: «La cucina di una società è il linguaggio nel quale essa traduce inconsciamente la sua struttura». Com’è la struttura della società etiopica tradotta nella sua cucina? E com’è la struttura della società italiana tradotta nella sua cucina?
In effetti anche nel linguaggio etiopico le parole sono distinte ma non distanti, sono mescolate, appiccicate e quasi si confondono, lottano per stare insieme perché l’una non può stare in piedi senza l’altra. Per esempio la parola Yistellign (che Dio ti dia attraverso di me Y ST L GN) è parola amarica che tiene insieme più persone (Dio, me e te) e più esperienze diverse in un’unica relazione di significato: quello del saluto che benedice.
In Etiopia ci sono ottanta lingue diverse che sono l’espressione storica e culturale di gruppi etnici locali. L’amarico è la lingua ufficiale nazionale e ha il difficile compito di tenere insieme i diversi gruppi linguistici e sociali. L’Etiopia si trova davanti la grande sfida di unire le diversità etniche e culturali, le stesse che purtroppo hanno generato non poche lotte e guerre interne negli ultimi anni. La rivendicazione etnica come ‘arma’ culturale per la difesa dei diritti, dei territori da arare, delle risorse naturali o dei confini politici e geografici, è frutto del colonialismo europeo nel Corno d’Africa. In particolare il processo coloniale italiano ha reso fissi e chiusi i gruppi etnici creando confini culturali rigidi e ben marcati, gli stessi che oggi vengono invocati per la lotta nello spazio politico. Prima del colonialismo le categorie etniche erano più aperte e più morbide, più spugnose, sfumate e porose.
La sfida è quella di tenere i confini culturali, mentali, spirituali e sociali aperti perché ciascun gruppo venga oggi riconosciuto e reso partecipe della costruzione democratica del paese e del vivere comune. Un processo di partecipazione corale perché ciascun gruppo possa dare quel pezzo di democrazia che l’altro non ha, e soprattutto perché nessun gruppo etnico può esistere senza l’altro. L’uno sarebbe vuoto, mentre l’altro sarebbe perso. Solo insieme appunto e in una relazione di reciproco riconoscimento e reciproca contaminazione si può generare una vita che abbia il sapore della pace e della convivenza.

 Fili che tengono insieme

Ci sono dei fili che da secoli tengono insieme le diversità regionali e culturali dell’Etiopia. Fili che cercano di costruire l’unità nella diversità. Uno di questi fili è proprio l’injera, quella fatta dalle nonne del nord di religione cristiana ortodossa che parlano il tigrino, e quella fatta al sud nelle grandi regioni dell’Oromia. Questo dato culturale del pane locale è così profondamente radicato nella gente che quando si prega il padre nostro nella traduzione in amarico non si dice: dacci oggi il nostro pane quotidiano ma dacci oggi la nostra injera quotidiana, frutto della terra e del lavoro dell’uomo.
Sì, oh Signore, dacci oggi l’injera quotidiana, quella fatta in casa, quella che ricorda i nonni e i fratelli, quella che tutti cercano ogni giorno e che oggi a causa della guerra costa tantissimo, quella che si mangia con le mani insieme in un unico piatto condiviso con gli ospiti, gli amici e i familiari, quella che tu hai spezzato e moltiplicato come giustizia del tuo Regno per i poveri; quella, Signore, che ci fa Uno in te seppur diversi, quel Pane-Injera che ci fa correre sulle montagne del Dawro da Duga ai Seferà, non solo per cercare di vincere le olimpiadi, ma anche per poter dire a tutti le tue Parole: «prendete e mangiate, questo è il mio corpo per voi e per tutti, fate questo in memoria di me».