Cara vita, fai schifo (o forse no)

Come Leopardi può educarci a una ricerca di felicità autentica

 di Pietro Casadio
della Redazione di MC

 Qualche tempo fa entro nella mia classe quarta annunciando che avrei iniziato a spiegare niente-popò-di-meno che Giacomo Leopardi, classe 1798. Adocchio subito diversi sguardi di smarrimento e qualche rado cenno di assenso.

I più intrepidi osano: «Leopardi quello dei lupini?». «No, quello è Verga, ragazzi» puntualizzo amorevolmente. «Allora quello con la moglie pazza?». «Penso che tu ti riferisca a Pirandello». «Ce l’ho, prof, quello gobbo!». «Esatto, Katia, proprio quello gobbo». annuisco infine sospirando: gli studenti hanno bisogno di solide certezze.
Quando devo spiegare un gigante della letteratura come Leopardi, provo sempre a trovare un punto di partenza che li possa in un qualche modo riguardare. E visto che mi diverto un mondo a tormentare i miei studenti con quesiti pseudo-esistenziali, scrivo alla lavagna tre domande: «Che cos’è la felicità?». «Si può essere felici?». «Come si fa a essere felici?». Lo so, lo so, sono un po’ vintage da un punto di vista filosofico, ma mi fa sempre un gran bene sorprendermi di come queste semplici domande risveglino dal torpore mattutino una buona metà della classe, anzi, oso, un 60% degli alunni. La cosa potrà sembrare strana a qualcuno, ma evidentemente l’argomento “felicità” li attira più dell’argomento “gobba di Leopardi”. 

Quello che non so

Davanti a queste domande emergono differenti posizioni. C’è chi è convinto che sia tutta una questione di “voler essere felice” e chi pensa che la felicità sia solo un’illusione, molti ritengono che la felicità sia dovuta a un mix di condizioni esterne (quello che ti capita) e interne (come vivi quello che ti capita), c’è pure, a onor di cronaca, chi confonde la felicità con la sbronza del sabato sera. La maggioranza della classe, comunque, dopo 20-30 minuti di discussione, si assesta sull’idea che nella propria esistenza si debba godere quello che si può perché, in sostanza, “la vita fa schifo”. E poi il pessimista è Leopardi.
In queste discussioni cerco sempre di far prevalere l’ascolto alla tentazione di gettarsi nell’agone, e mi limito a punzecchiare i miei (poveri) studenti con qualche domanda qua e là, per evitare risposte troppo comode. C’è da dire, tra l’altro, che risposte limpide - comode o scomode che siano - non ce le avrei. E, diciamolo chiaramente, non ce le ha nemmeno Leopardi che pure ha inseguito la felicità per tutta la vita rinnegandola, certo, ripudiandola, ma senza mai smettere di cercarla. Ed è forse proprio questo il più grande insegnamento di Leopardi: l’indomita costanza della ricerca e quindi, implicitamente, il lasciare socchiusa la porta della vita all’imprevedibile, a un’alternativa non calcolata che può sorprendere e sconvolgere ogni ragionamento. Con un filo rosso, che sembra collegare da capo a fondo questo percorso di ricerca: la felicità, se davvero esistesse, avrebbe a che vedere con l’infinito - e quindi con Dio, un Dio negato dalla visione materialistica dell’autore - perché nulla di ciò che è limitato ci può davvero bastare. Tanto che, a seguire la tradizione popolare (non si sa poi quanto rimaneggiata), anche nella vigilia della sua morte si chiedeva perché non avesse lui avuto la possibilità di credere nel Dio cristiano, come invece avevano fatto altri grandi e ragionevoli intellettuali del passato.

 Quello che non basta

La felicità, dunque, se esiste, è legata a filo doppio con l’esperienza di Dio. E io, da cristiano, non posso fare altro che chiedermi: è proprio così? Certamente, è la riflessione più istintiva, non mi sento di legare la felicità all’adesione formale a una religione. Anche perché sarebbe palesemente contraddetto dalla realtà. Basta guardare gli occhi languidi e un po’ assonnati di chi esce da una normale messa per dubitare del fatto che ai più la celebrazione susciti grandi entusiasmi o una qualche forma di potente gioia tutta interiore. O basta intrufolarsi in qualche incensato meandro della nostra amata Chiesa per sentire i sonagli dei crotali e il sibilare delle vipere.
Mi tenta qualche attimo di più, nel fluire dei ragionamenti, il pensiero che la felicità si possa legare a qualche alto ideale e valore di ispirazione evangelica: l’altruismo, il servizio, una vita spesa per gli altri. Ma fin troppo spesso ho visto persone prosciugate dal servizio che facevano, sovraccaricate dai mille sì che gentilmente hanno detto, alzare la mano esasperati e dire “Stop, non ce la faccio più, ho bisogno di tempo per me”. A volte, troppe volte, ragazzi o adulti che avevano speso anni in un’associazione se ne sono andati sbattendo la porta con l’impressione (spesso corretta) di essere stati sfruttati fino al midollo. Mi sembra dunque che non serva - o comunque non basti - questo grande carico di idealità per poter coscientemente affermare di essere felici. 

Quello che resta

Anche perché, credo, il cristiano a un certo punto non se ne fa granché degli ideali. Certo, ognuno cresce con idee e valori e non se li può togliere di dosso, sono cuciti nella pelle, intessuti nel cuore, sono come una gamba o un braccio. Però, appunto, come una gamba e un braccio, anche gli ideali e i valori prima o poi passeranno e saranno dispersi dal tempo. «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (Mt 24, 35). Le Sue parole. E forse il nostro poterle ascoltare. Questo rimane, questo resiste, questo è - per tornare a Leopardi - l’infinito, l’eterno, ciò che va oltre ogni limite. Se vogliamo cercare la felicità, è da lì che dobbiamo partire.
L’ascolto, tuttavia, è più scomodo di un ideale, perché non se ne sta lì bello fermo a farsi contemplare, ma chiede di rimettersi in gioco ogni giorno, di rinnovare quotidianamente la docilità del nostro cuore come si rinfresca il lievito madre. E mentre gli ideali e i valori ti supplicano innanzitutto di difenderli, l’ascolto ti sprona a mettere in campo fantasia e creatività per generare nuova vita e ti chiede, spessissimo, di perdere, di accettare la sconfitta e l’umiliazione. Talvolta persino la morte. È forse questa, mi chiedo, la differenza fra la religione e la fede?
Lascio volentieri la questione ai teologi, io sono un insegnante di Lettere, dopotutto, e devo quindi tornare ai miei studenti. «Bene, ragazzi», dico per tirare le fila, «grazie per la bella discussione. Sono queste le domande, questi i dubbi e le angosce che si agitano nella vita e nella poesia di Leopardi». I più svegli capiscono che la parte bazza della lezione sta terminando e rilanciano con finto interesse: «Prof, non ci ha detto cosa ne pensa lei!». «Volete sapere cosa ne penso io?». «Certo!». «Beh, non ho risposte chiare in merito, ma di una cosa sono convinto: un ingrediente necessario per poter essere felici è l’ascolto. E per aiutarvi a mettere in pratica, spieghiamo Leopardi».