Nietzsche che dice boh
Dio non è morto e il sacro è tornato, fra rischi di personalismo e desiderio di autenticità
di Filippo Gridelli
frate cappuccino, teologo
Chi l’avrebbe mai detto? Il dato è evidente. Homo consumens e homo religiosus convivono nella stessa epoca, anzi sotto lo stesso tetto.
Una strana coppia, decisamente, ma una coppia di fatto. La conclamata compresenza sconfessa le più sicure previsioni che associavano all’avanzata della secolarizzazione la fine della religione. Esiste ancora il senso del sacro? Già da alcuni anni filosofi e sociologi rispondono affermativamente a questa domanda. Anzi a loro dire non si tratta di mera sopravvivenza, quanto di un vero ritorno o di una rivalsa, persino. D’altronde il sacro è coestensivo all’esistenza umana, alle sue molteplici dimensioni e alla sua ineliminabile ambivalenza: «il sacro, infatti, indica ciò che deve essere assolutamente custodito ma anche ciò che deve essere assolutamente distrutto: avvolge la vita e la morte, il dolore e la felicità, l’amicizia e l’inimicizia, imponendo atteggiamenti radicali e anche contraddittori (la vita umana è un dono e merita protezione, ma la morte del mio predatore è una benedizione e una grazia)» (Pierangelo Sequeri).
Non c’è più tradizione
Sfumata la definizione di religione come oppio dei popoli (Marx) e smentita la morte di Dio (Nietzsche), oggi l’esperienza del sacro prende commiato dalle forme tradizionali. A poco servono scalpitanti fideismi e redivivi tradizionalismi. Si tratta piuttosto di una religiosità liquida e poco formale, non praticante e piuttosto critica verso l’istituzione religiosa e i suoi componenti. Inutile nascondere che tale discredito si nutre di fragorose ragioni. Senza la necessità di chiamare alla memoria vicende scabrose e dolorose, limitiamoci a denunciare la supponenza o la commiserazione con cui talvolta dal sagrato si guarda alle contemporanee espressioni di spiritualità mondana, restando ciechi sulla mondanità spirituale che spesso ammorba le sacrestie. Per fortuna o per Provvidenza sappiamo che su questo punto papa Francesco, simpaticamente definito un «papa da aperitivo» da quelli di fuori, è fermo e intransigente con quelli di dentro. Tuttavia ammettere il «peccato» dell’istituzione e ricordare che la Chiesa è semper reformanda non basta più. Ormai «l’istituzione di una verità pubblicamente vincolante appare al senso comune diffuso una minaccia per i valori (cristiano-)occidentali dell’individualità personale» (Pierangelo Sequeri). Pare insomma che i buoi siano scappati dal recinto del sacro. Scappati in ordine sparso.
Niente di nuovo sotto il sole
Gli open spaces verso i quali ci si dirige sono molto probabilmente quelli dell’autenticità e della performance, spazi di un «sacrosanto» narcisismo collettivo. A parere di Byung-Chul Han, un altro culto è in atto: il culto dell’autenticità. Così lo descrive il filosofo sudcoreano che vive ed insegna in Germania: «ciascuno esibisce se stesso, ciascuno produce se stesso. Ciascuno si consacra al culto, alla funzione religiosa di se stesso, fungendo da proprio sacerdote».
Sembra questo l’esito estremo di una relazione col sacro che viene da molto lontano, relazione non priva di reminiscenze bibliche. Quando nella seconda metà del X sec. a.C. si consumò la divisione di Israele nei due regni del Nord e del Sud, lo scaltro re Geroboamo fece seguire allo scisma politico quello religioso. Per evitare che i suoi sudditi continuassero a salire al tempio di Gerusalemme collocò un vitello d’oro a Dan ed uno a Betel, edificò templi e non solo stabilì lui stesso sacerdoti che non erano discendenti della tribù di Levi (cf. 1Re 12, 20-31), ma «a chiunque lo desiderava conferiva l’incarico e quegli diveniva sacerdote delle alture» (1Re 13,33). Che si tratti di un vitello d’oro o della propria persona sembra permanere nell’uomo un’istanza “sacerdotale”, un sacrum-facere, una tensione alla consacrazione dell’esistenza, altrui o propria. Nulla di troppo nuovo sotto il sole, dunque. E come allora l’operazione religiosa aveva una valenza politica - quella appunto di tagliare i ponti con l’antica capitale e così rafforzare il separatismo samaritano - così oggi il culto dell’autenticità assume una precisa valenza nel regno della globalizzazione neoliberista.
Accade infatti che il valore dell’autenticità, che innegabilmente ha un’importanza essenziale nel promuovere l’originalità e l’identità della persona e che non è di per sé nemico delle istanze comunitarie, viene surrettiziamente tramutato in merce «religiosa», assorbendo l’homo sacer nella logica di mercato: «L’autenticità rappresenta una forma di produzione neoliberista. Ci si sfrutta da soli credendo di autorealizzarsi. Mediante il culto dell’autenticità, il regime neoliberista si appropria della persona e la trasforma in un sito produttivo ad altissima efficienza, così l’intera persona viene integrata nel processo di produzione» (Byung-Chul Han). All’interno di questo sacrum commercium post-moderno, la «profana» autorealizzazione identitaria saldata con la «sacra» autenticità parrebbe produrre una secolarizzazione radicale che sacralizza l’uomo stesso e lo sradica dalla relazione con la collettività o un altro ordine superiore. In tal modo la religiosità della vita - e Dio con essa - risulta sospinta in una dimensione sempre più personale e sempre meno sociale.
C’è qualcosa di buono
Prendendo sempre più le distanze dal senso dell’esistere comunitario, l’autenticità accampa i suoi diritti, ci mancherebbe! Così nello stesso recesso del sé, fa la sua apparizione una nuova figura del sacro, che Ulrich Beck in uno dei suoi ultimi libri definisce il Dio personale. Questa espressione non deve subito rimandare ad una accezione negativa, che si riferisca banalmente ad un Dio tagliato a propria misura (sappiamo bene che nessuna oggettività dottrinale preserva del tutto dal confezionarsi un Dio prêt-à-porter). Il riferimento è piuttosto ad una nuova dimensione religiosa maggiormente corrispondente alla persona, alla sua vita, alla propria interiorità. È un Dio che meglio si adatta al singolo individuo, privo di teologia e di dogmi, tanto misericordioso quanto impotente. Un Dio più «piccolo», che tuttavia mantiene qualche cosa dell’incarnazione, tempo e spazio per una relazione intensa, per una sacra conversazione che coinvolga un’emotività profonda.
Che dire? Certamente tale dislocazione del sacro è esposta al pari di ogni «religione» ad esoterismi, gnosticismi, intimismi, autoesaltazioni, derive, ma d’altro canto interroga seriamente una esausta rappresentazione di Dio semmai dogmaticamente ineccepibile, ma spesso alquanto impersonale e clericale. Ancora una volta la propria conversione va insieme all’evangelizzazione: la comunità cristiana sarà capace di far incontrare il Dio personale con il Dio (in) persona di Gesù di Nazaret, la cui verità che salva tocca l’uomo e la donna nelle sue dimensioni più autentiche? Saprà la Chiesa, sacramento «dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano» (Lumen Gentium 1), offrire uno spazio - sacro! - di ascolto e di incontro tra queste due «figure»? Oppure lascerà il Dio personale e la sacra autenticità alla mercé dei mercanti non più del tempio, ma dei tempi che corrono?