Nel nome del debole, del povero e del sofferente

Nei fratelli sta la più grande manifestazione della gloria di Dio

 di Felice Accrocca
arcivescovo di Benevento, storico

 Nella vita di Francesco d’Assisi ci furono un prima e un dopo, entrambi nettamente differenziabili.

Nella prima parte della sua esistenza, egli mostrò in qualche modo una venerazione del sacro e, al tempo stesso, un disprezzo di ciò che, per un credente, v’è di più santo, cioè il corpo di Cristo, presente non solo nelle specie consacrate, ma in tutti coloro che il Redentore stesso (Mt 25,31-46) ha scelto per rappresentarlo, e cioè i poveri, i carcerati, quanti vengono calpestati nei loro più elementari diritti.
A costoro, che - per dirla con parole di papa Francesco - sono a pieno diritto la carne di Cristo, l’Assisiate non dedicò attenzione, se dobbiamo credere (ma non c’è ragione di negarlo) a quanto scrive il suo primo agiografo. Con espressione cruda, ma di un realismo esemplare, Tommaso da Celano ci fa sapere infatti che Francesco, «nel tempo della sua vanità», quando passava vicino alle case dei lebbrosi si turava il naso per due miglia, per non avvertirne il lezzo (1Cel 17: FF 348).
Al contrario, da uomo del suo tempo, egli non poteva che manifestare un certo rispetto per il sacro e per i luoghi atti a rappresentarlo, un rispetto però non disgiunto dal desiderio di affermare se stesso con azioni anche eclatanti. Così fece, ad esempio, nel corso di un pellegrinaggio giovanile alla tomba dell’Apostolo, quando lasciò al tesoro di San Pietro un’offerta visibilmente generosa, in modo tale che le monete, «gettate oltre la grata dell’altare, fecero un tintinnio talmente vivace da rendere attoniti tutti gli astanti per quella offerta così magnifica» (3Comp 10: FF 1406). Il modo in cui questa liberalità si rivelò si adattava benissimo al suo carattere e al suo comportamento: in fondo, fino ad allora non aveva fatto altro che cercare di stupire, di richiamare l’attenzione su di sé; nel gettare in obolo in un modo tanto plateale e rumoroso quella manciata di monete fu soprattutto il suo ‘uomo vecchio’ a venire fuori: gli sembrava, infatti, che la spilorceria mostrata dai pellegrini fosse lontana anni luce da quell’ideale di cortesia che aveva fino ad allora idolatrato e, al tempo stesso, proprio tale grettezza gli offriva l’occasione per mettersi in evidenza nel luogo più importante della cristianità.

 Il santo vangelo…

Le cose cambiarono quando, in quei lebbrosi che prima aveva accuratamente evitato, egli riconobbe il volto del Cristo e la carne del suo Salvatore: allora l’amaro si trasformò per lui in dolcezza dell’anima e del corpo (Test 1-3: FF 110); comprese che s’era sopravvalutato eccessivamente, che aveva fatto di sé un idolo, e ai suoi occhi persero via via d’importanza tutte le cose che aveva amato fino a quel momento e per le quali si era dato tanto da fare. Comprese, soprattutto, che vera offerta non era quella manciata di monete lanciata nella Basilica di San Pietro, ma l’aderire all’invito dell’apostolo Paolo: «Vi esorto, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio; è questo il vostro culto spirituale. Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,1-2).
Il «santo vangelo» divenne allora la sua forma di vita (Test 14: FF 116), l’unità di misura per valutare uomini e cose; abitualmente, Francesco non suole dire «vangelo», ma «santo vangelo», in modo da significare non solo l’eccellenza di quella Parola che salva, ma che la santità si realizza solo quando il vangelo viene preso sul serio, solo quando si assumono i suoi criteri di valore e di giudizio che postulano una sequela non di rado alternativa ai criteri di valori e di giudizio del mondo. E non è certo un caso che il testo della Regola bollata, confermato da Onorio III nel 1223 (siamo ormai alla vigilia della celebrazione centenaria) si apra e si chiuda con l’ardua affermazione che i frati sono tenuti ad osservare il «santo vangelo»: «La Regola e vita dei frati minori è questa, cioè osservare il santo vangelo del Signore nostro Gesù Cristo» (Rb I, 1: FF 75); «… affinché … osserviamo la povertà e l’umiltà e il santo vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso» (Rb XII, 4: FF 109). Tutto il dettato appare dunque come una grande inclusione, che trova in quest’impegno la chiave ermeneutica per comprenderne il senso autentico.

 … e la santa creazione

Tuttavia, potremmo dire che per lui divenne santa l’intera creazione, chiamata essa stessa a lodare Dio e per la quale Dio doveva essere lodato dall’uomo. Il creato, egli diceva, grida: «Chi ci ha creati è infinitamente buono» (2Cel 165: FF 750); e: «Dio mi ha fatta per te, o uomo» (CAss 88: FF 1623). È questo il punto forte del discorso di Francesco: la creazione tutta, opera di Dio, è chiamata alla sua lode, ma vi è chiamato soprattutto l’uomo, che ne è posto al vertice, poiché ogni cosa gli è stata data affinché se ne serva e la restituisca al Creatore. Il dramma sta nel fatto che le creature servono Iddio molto meglio dell’uomo, poiché, mentre esse obbediscono al Creatore, l’uomo gli volta tranquillamente le spalle. Concetti che esprime in modo efficace in una delle sue Ammonizioni: «Considera, o uomo, in quale sublime condizione ti ha posto il Signore Dio, poiché ti ha creato e formato a immagine del suo Figlio diletto secondo il corpo e a similitudine di lui secondo lo spirito. E tutte le creature, che sono sotto il cielo, per parte loro servono, conoscono e obbediscono al loro Creatore meglio di te» (Am V, 1-2: FF 153-154).

 Nessun contrasto

Il sacro finì quindi per perdere ogni valore agli occhi di Francesco, sintonizzato ormai sulla lunghezza d’onda evangelica che gli chiedeva di riconoscere la santità nei confini dell’umano, di onorare quell’unico vero tempio di Dio che è l’uomo vivente (1Cor 3,16-17; 6,19; 2Cor 6,16)? No, non perse valore: il culto sacro, la sinassi eucaristica, fu per lui il luogo in cui incontrare il Salvatore, quello stesso che egli aveva imparato a riconoscere nei poveri, e anche lo spazio e gli oggetti sacri furono oggetto delle sue attenzioni e della sua cura, come rivelano con tutta evidenza espressioni nette del Testamento (vv. 11-12: FF 114) e di altri suoi scritti (cf. 1Lch 4-12; 2Lch 4-12; 1Lcus 3-5: FF 208a-209a; 208-209; 241-242). Non ci fu, in Francesco, opposizione tra sacro e santo; non demitizzò - né, tantomeno, demonizzò - il sacro, né gli conferì un valore superiore a quel che aveva, e ritenne santa l’umanità, convinto che è nell’uomo vivente che Dio vuole abitare: «E sempre costruiamo in noi una abitazione e una dimora permanente a Lui, che è il Signore Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo» (Rnb XXII, 27: FF 61).
Gli oggetti sacri divennero così il veicolo per manifestare la gloria di Dio, quella gloria che risplendeva in primo luogo nei fratelli, soprattutto se deboli e sofferenti, dei quali ogni uomo era chiamato a prendersi cura: solo allora si sarebbe riconquistata quella grazia che il peccato aveva guastato e la terra sarebbe tornata ad essere il giardino che era in origine…