Il protestantesimo riformato italiano ha una struttura sinodale: l’assemblea e il consiglio di Chiesa a livello parrocchiale, regionale e distrettuale, il sinodo nazionale e la tavola valdese costituiscono un assetto con forti analogie democratiche. Ma sarebbe inesatto dire che la Chiesa è «democratica»: non è governata dal «popolo», bensì, si spera, da Dio.

a cura di Barbara Bonfiglioli

  Per fare un tavolo ci vuole un sinodo

Il sinodo degli altri cristiani 

di Fulvio Ferrario
docente di Teologia Sistematica presso la Facoltà Valdese di Teologia a Roma

 La dimensione sinodale è al centro della visione della Chiesa che caratterizza il protestantesimo riformato, cioè quello che nasce a Zurigo con Zwingli, negli anni Venti del XVI secolo.

Esso si espande nella Svizzera tedesca, per poi ricevere la sua configurazione più classica a Ginevra, ad opera del riformatore francese Giovanni Calvino. In seguito, questo tipo di protestantesimo si diffonde in diversi paesi d’Europa. Esso va distinto dal protestantesimo luterano, che si insedia anzitutto in Germania e poi nei paesi scandinavi: qui l’istituto sinodale è più recente e meno centrale. Per semplicità e chiarezza, mi limiterò al caso italiano, dove il protestantesimo riformato è rappresentato dalla piccola Chiesa evangelica valdese, che da quasi cinquant’anni è integrata con la Chiesa metodista.

 Metti un sinodo nella struttura

Il modo di concepire la Chiesa, a partire dalla comunità locale, è strutturalmente sinodale. La singola comunità è governata da un’assemblea di Chiesa: di essa fanno parte tutti i membri della comunità, uomini e donne, che esercitano l’elettorato attivo e passivo, in base a determinati regolamenti. Il compito dell’assemblea è di individuare le linee pastorali della Chiesa locale (la comunità parrocchiale) e di indirizzare l’operato di un consiglio di Chiesa, eletto dalla stessa assemblea. Il consiglio svolge il lavoro quotidiano di guida della comunità ed è presieduto da un uomo o da una donna diversi rispetto al pastore o alla pastora della Chiesa. Questi ultimi, unitamente agli altri ministri (incaricati dei diversi compiti, dalla catechesi, all’amministrazione, alla solidarietà) rispondono al consiglio, che quindi opera in termini collegiali, riferendo all’assemblea e ricevendone le direttive.
Lo stesso schema si applica a livello regionale (circuiti) e sovraregionale (quattro “distretti”: Nord, Centro, Sud e isole e la regione delle valli intorno a Pinerolo, dove in un’area ridotta risiede una considerevole percentuale dei membri di Chiesa): anche queste reti di comunità sono guidate dalle rispettive assemblee e dai consigli direttivi da esse eletti.
Infine, il sinodo nazionale vero e proprio: esso è costituito da una maggioranza di membri eletti dalle comunità e dagli organismi intermedi dei quali s’è detto, nonché dai pastori e dalle pastore. Il sinodo nazionale si riunisce una volta all’anno, normalmente per sei giorni, discute le questioni ritenute centrali per l’azione pastorale della Chiesa in Italia ed elegge l’organismo direttivo che guida la Chiesa tra un sinodo e l’altro, chiamato tavola valdese; il/la presidente della tavola, che dunque è anche la figura presidenziale della Chiesa intera, è il moderatore o la moderatrice. Si tratta di un ministero a tempo pieno, che può essere svolto da ministri di culto o da laici, uomini e donne. Il moderatore o la moderatrice è eletto/a per un anno e può essere rieletto/a fino a sei volte, per un totale di sette anni al massimo.
La discussione sinodale è guidata da due documenti, piuttosto corposi: la relazione della tavola valdese sul proprio operato nell’anno precedente e quella di una commissione d’esame che, come indica l’espressione, ha il compito di valutare criticamente l’operato della direzione della Chiesa. Le decisioni sinodali, che guideranno l’azione della tavola nell’anno successivo al sinodo, costituiscono l’esito del dibattito.

 Analogie e teologia

Questo assetto sinodale della Chiesa presenta evidenti analogie con le procedure democratiche: uomini e donne eletti/e dalla base, lo strumento del voto come decisivo per le decisioni, parità di genere, attenzione a che laici e laiche costituiscano la maggioranza, evitando così, almeno in linea di principio, ogni rischio di monopolio dell’autorità da parte del ministero pastorale. È però essenziale che tali importanti analogie non siano fraintese. Di per sé, sarebbe del tutto inesatto dire che la Chiesa sia “democratica”. Essa non è governata dal “popolo”, bensì, noi speriamo e confessiamo, da Dio. Per questo, ogni riunione e ogni assemblea si aprono con il culto, cioè con l’invocazione dello Spirito santo e l’ascolto orante della parola di Dio. Le persone inviate dalle comunità per partecipare al sinodo, poi, non sono delegati/e delle Chiese locali, bensì deputati/e. Ovviamente compete loro la responsabilità di far udire la voce delle comunità che le inviano. La decisione sinodale, però, è compresa come il frutto del discernimento che avviene nell’assemblea, che tiene conto di tutti i pareri, ma non ne è la pura e semplice sommatoria.
Dal punto di vista teologico, il sinodo si colloca in una continuità differenziata con la tradizione conciliare e sinodale della Chiesa antica. La differenza decisiva è che a un’assemblea di vescovi se ne sostituisce una di laici e di laiche e di pastori e pastore. In questo modello ecclesiologico, la dimensione dell’episkopé, cioè della supervisione complessiva delle comunità locali, non è abbandonata: essa è però collegiale (La Tavola valdese) e sottoposta all’autorità del sinodo.

 Sinossi ecumenica

Nella tradizione riformata, e in generale protestante, i Sinodi in senso stretto sono nazionali, perché tali sono le Chiese. Il protestantesimo, cioè, non conosce una struttura ecclesiale organica, come quella del cattolicesimo romano. Da questo punto di vista, è più simile (pur con tutte le differenze) al cristianesimo ortodosso. Come in quel caso, le singole Chiese nazionali sono in comunione tra loro, ma non sono integrate in un’unica organizzazione. I tentativi di costituire un sinodo sovranazionale (ad esempio europeo) non hanno, per ora, avuto successo, per diverse ragioni. Questo fatto costituisce, a giudizio di chi scrive, un fattore di debolezza piuttosto grave, visto che i processi di integrazione sovranazionale richiedono, anche alla Chiesa, un’integrazione anche a livello di struttura.
La sinodalità, così com’è vissuta dal protestantesimo riformato, costituisce un modello ecclesiologico fortemente diverso da quello incarnato dal cattolicesimo romano (e anche dall’ortodossia, considerata la natura dell’episcopato in quella confessione). Dal punto di vista delle Chiese della Riforma, esso non ha pretese di esclusività: non sussistono, cioè, difficoltà di principio nel riconoscere la qualità cristiana degli assetti ecclesiologici delle altre Chiese. Il cattolicesimo e l’ortodossia, invece, ritengono che il modello protestante sia insufficiente perché si possa parlare con pienezza di una Chiesa cristiana. Da parte protestante, se ne prende atto, con dispiacere, ma senza eccessivi piagnistei. Al tempo stesso, si ricordano agli interlocutori ecumenici le serie responsabilità che tale posizione comporta.

 Dell’Autore segnaliamo:

   

 

   Le parole della fede. Glossario teologico interconfessionale
   Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo 2021.