Mistero e profezia, la teologia dal basso

Permettere che “Dio si dica” piuttosto che “dire Dio”

di Marco Dal Corso
esperto di Storia dell’evangelizzazione in America Latina e docente di Teologia ecumenica

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Se è vero, parafrasando il titolo di una recente pubblicazione, che siamo davanti alla “prima generazione incredula” (si tratta di un testo che indaga il rapporto tra i giovani e la fede oggi), che, insomma, le chiese, non solo quella cattolica, vivono una stagione di crisi almeno per quel che riguarda la partecipazione, che un modello ecclesiale sembra essere messo radicalmente in discussione, occorre porsi la domanda giusta e provare a trovare almeno l’inizio di possibili e praticabili risposte al problema.

Quando la redazione di MC ha suggerito che una probabile risposta si trovi tornando a dire e praticare una “teologia dal basso”, dopo tanta teologia accademica e istituzionale, spesso slegata, questa, dal vissuto delle persone e delle comunità, ho pensato che l’ipotesi di ricerca potesse essere accolta. Con alcune necessarie precisazioni. La più importante delle quali è quella di non ritenere che una cosiddetta “teologia del basso” esista in concreto. Quello che esiste, è vivo e attraversa le epoche, invece, è un’esperienza religiosa vissuta prima che teorizzata, praticata prima che confessata, narrata piuttosto che argomentata. Insomma, se di teologia “dal basso” possiamo parlare, dobbiamo pensare e analizzare, ma anche accogliere e promuovere, il vissuto religioso, spesso interreligioso, dei tanti pellegrini e cercatori di senso che stanno dentro e fuori le religioni e le loro teologie.

Se poi rimane vero che le “polarità” di una religione sono, oltre quella “sacramentale-dottrinale”, quella mistica-popolare e quella profetica-pratica, allora il riferimento alle esperienze mistiche e profetiche vissute “dal basso” può essere un servizio alla teologia magisteriale ed accademica per rinnovarsi, saper dire in modo nuovo le sue cose antiche, saper comunicare anche in epoca post-moderna (qui mi servo delle riflessioni che da tempo vien facendo un teologo “pluralista” quale è il nordamericano Paul Knitter).

Il vissuto mistico

È tipico del vissuto religioso sperimentato “dal basso” usare l’aggettivo misterioso quando si vuole provare a descrivere l’esperienza religiosa. La religione, infatti, tratta del Mistero. La realtà che essa dice non è mai completamente comprensibile: esperienza immanente, ma anche trascendente. Umana, ma anche oltre la soglia. Questo i mistici di tutte le religioni, ma anche i pellegrini sulla strada di Santiago lo sanno e lo vivono. I mistici cristiani, ad esempio, hanno parlato di Dio come notum Ignotum come ossimoro per ricordare, tra altre cose, che il Mistero non si può mai conoscere del tutto, che tutte le teologie sono grammatiche povere di fronte alla fantasia del linguaggio divino.

Alcune tradizioni religiose riconoscono meglio di altre la natura ineffabile, incomprensibile di ciò di cui stanno trattando. Le religioni orientali sembrano avere una migliore tradizione di rispetto nei confronti del Mistero. Il taoismo ricorda che quanti parlano del Tao non sanno realmente di cosa stanno parlando. L’induismo consiglia di porre “neti, neti” - “questo no, quello neppure” - prima di qualunque cosa si dica dell’Assoluto. E i buddisti dello Zen sono disposti a bruciare tutte le Scritture e anche ad uccidere il Buddha, prima di legarsi a un qualsiasi modo univoco di parlare o di insegnare.

Ma anche le loquaci tradizioni abramitiche, che pure hanno meglio “argomentato” l’idea di Dio con il concetto di Parola, Dabar, Logos, anch’esse riconoscono che Dio non può essere catturato da parole. Per i cattolici è un dogma definito che Dio non possa mai essere definito!

Il linguaggio mistico delle religioni, allora, può aiutare la teologia a superare la “sindrome” di superiorità riferita alla propria religione: se il Mistero non può mai essere detto completamente da nessuna teologia e religione, tutte loro portano una parte di verità che è bene accogliere. Nessuna parola, nessuna rivelazione può essere l’unica o ultima parola sul Mistero. C’è sempre qualcosa in più da attendere. Quella della teologia “dal basso” vissuta dai mistici è prima di tutto una confessione piuttosto che una dottrina, un’esperienza prima che una teoria; eppure non per questo rinuncia ad essere “assoluta” e “totalizzante”, perché ogni confessione all’Amato, come dicono i mistici, è totale, inglobante, unica. Ma è proprio il valore esperienziale prima che dottrinale a ricordare alla teologia di essere “relativa”, di essere un modo, certo il mio modo, di dire-Dio. Ma non l’unico modo, non quello migliore. Sulla strada della mistica il dialogo interreligioso guadagna in autenticità a permettere di “credere l’universale nel particolare” (direbbe la teologia “dall’alto”).

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Il vissuto profetico

Se i mistici ci ricordano che non possiamo mai conoscere pienamente e definitivamente il Divino o il Grande Misterioso, i profeti da parte loro ci assicurano che il fine ultimo di ogni esperienza religiosa non è quello di conoscere Dio.

Ogni autentica “teologia dal basso” sa per esperienza che la fedeltà alla propria religione non si misura sul criterio dell’ortodossia, ma su quello della ortoprassi, che la religione è una possibilità di vivere in altro modo la propria vita. Come dicono tutti i richiami dei profeti a iniziare da Gesù, per il quale i due comandamenti principali sono solo due forme di osservare un comandamento: non puoi amare Dio se non ami il tuo prossimo. Per questo, per Buddha, se il tuo prajna (saggezza) non sta producendo karuna (compassione), non hai prajna. E per questo, per Maometto, come per Ezechiele, conoscere Allah è fare giustizia.

Per i profeti e per tutte quelle persone che “dal basso” cercano di vivere coerentemente la loro vocazione umana e religiosa è molto più importante “fare” fedelmente la verità che “conoscerla” pienamente. Per quanto l’ortoprassi (azione corretta) e l’ortodossia (credenza corretta) siano intimamente connesse, i profeti rivendicano il primato dell’ortoprassi.

Insomma, la profezia vissuta “dal basso”, letteralmente sulle strade polverose dove camminano le persone, dentro le favelas, le villas-miseria, le bidonville, ma anche dentro le terre della mafia e della camorra, nelle case-famiglia e comunità di recupero, la pratica profetica ricorda alla teologia che la verità è da fare prima che da conoscere.

Come per i mistici, anche per i profeti è “religione” (e sua teologia) lasciare che “Dio si dica” piuttosto che “dire Dio”.

Segnaliamo il volume:

Arnaldo De Vidi

Né angeli, né demoni, ma post-moderni

Pazzini, Villa Verucchio 2011, pp. 128