«Se vuoi andare veloce, corri da solo. Se vuoi andare lontano, cammina insieme», dice un proverbio africano. «Cammineremo insieme (a te) verso la libertà», cantiamo sovente al termine delle celebrazioni delle nostre eucaristie in carcere. Non c’è corsa veloce verso la libertà; c’è solo un “sinodo” (cammino insieme), lontano. Tra segnare il passo, sapersi aspettare e perfino tornare indietro per ricuperare chi non ce la fa.

A cura della Redazione di “Ne vale la pena”

 Il cammino è partecipazione

Molte strade portano a Roma, una sola alla libertà

 DIETRO LE SBARRE

Insieme per un pezzo di strada

Che la strada sia breve o lunga non importa. Importa che ci si senta fianco a fianco, in un incontro di esperienze che arricchisce la vita di ognuno.

Questa è la spinta che mi ha condotta in carcere come “volontaria”, questo è lo stile che ho sempre ricercato, nonostante le difficoltà del contesto e, soprattutto, la tentazione subdola di sentirmi in qualche modo quella buona che incontra i cattivi, quella che ha qualcosa da insegnare, quella che può dare consigli, quella che ha già capito tutto. La tentazione del volontariato autocentrato, che lascia comunque poco sapore. A partire dal fare “per”, anche a causa o forse grazie alle delusioni e ai fallimenti, col tempo si impara a fare un passo in più, e provare ad “essere con”, mettendo in comune ferite, limiti e sofferenze per tracciare percorsi di umanità in una realtà arida e opprimente ma al tempo stesso molto fertile. Credo che l’esperienza del volontariato in carcere sia in molti casi un’esperienza autentica di “sinodalità vissuta” nella vita ordinaria, un camminare insieme che colma le distanze e oltrepassa i muri; in carcere nessuno o forse pochi sanno cosa significhi la parola “sinodalità”, tanti hanno un desiderio profondo di mettersi in cammino anche se spesso non trovano la direzione; mi auguro che la grande marcia che vedrà impegnata la Chiesa fino al 2023 riesca ad intercettare questo desiderio.

Chiara

 Persone in cammino nella città oltre il muro

Il carcere è considerato come una città nella città in cui non solo sono rinchiuse persone che devono scontare la pena; è infatti il luogo di lavoro di molti cittadini: agenti della polizia penitenziaria, funzionari giuridico pedagogici, personale sanitario, insegnanti. Ma ci sono altre persone che, da liberi, entrano in prigione e popolano la nostra città, e sono i “volontari” non perché devono percepire uno stipendio o per altri interessi materiali, ma solo perché animati, in vario modo, da “com-passione” verso chi abita qui, interessati a conoscerci e a condividere esperienze nel segno della comprensione umana. Gli “angeli”, così qualcuno di noi li chiama, sono un piccolo esercito di quasi 15000 unità sul territorio nazionale. Sono spesso figure indispensabili, che supportano le figure istituzionali nella attività pedagogiche, per offrire ai detenuti, per quanto possibile, le migliori opportunità durante l’esecuzione della pena. Pur non rientrando fra gli operatori che strutturalmente fanno funzionare la vita degli istituti hanno un ruolo irrinunciabile: l’ordinamento penitenziario li definisce infatti “assistenti volontari”, espressione da cui si evince il contributo rilevante che forniscono al percorso di reinserimento delle persone recluse.
Penso ai colloqui in cui troviamo ascolto, possiamo trovare supporto psicologico, esprimere il disagio e la debolezza, trovando conforto e preziosi consigli, scoprendo che forse siamo molto più vicini di quanto pensiamo, nonostante il muro che divide le nostre vite; penso alle attività culturali e ricreative che vengono proposte, che sono occasioni di reciproco arricchimento umano oltreché la possibilità di riempire l’ozio e la desolazione dei giorni sempre uguali dietro le sbarre; penso a quando l’incontro fra detenuto e volontario diventa l’occasione per condividere le esperienze di male che hanno attraversato le nostre vite, per vedere gli errori e per guardare al futuro con positività e speranza. Penso infine ai professori ed agli studenti universitari che ci supportano nello studio e che coltivano insieme a noi il sogno di un riscatto anche attraverso un diploma di laurea, considerando la conoscenza come passaporto per la libertà.
Pensando ai volontari che conosco, vedo cittadini fedeli alla Costituzione, che vivono il dovere inderogabile della solidarietà sociale, rappresentando il “ponte” fra noi e la comunità civile che vive all’esterno. Sento molti volontari dire che il contatto con noi li arricchisce ed aumenta la loro conoscenza della vita, aiutandoli a vivere meglio. In fondo è veramente questo il senso: camminare insieme per vivere in pieno il dono della vita.

EmmeI

 Il cammino della Chiesa passerà dal carcere?

Sorprendente! Abbiamo appena celebrato il santo Natale, e abbiamo sentito che i pastori hanno ascoltato un annuncio e si sono messi in cammino per incontrare Gesù. Con il sinodo siamo chiamati a metterci in cammino insieme per ascoltarci a vicenda alla luce della Parola di Dio. La Sua Parola è la bussola di questo cammino. Papa Francesco ci definisce “pellegrini innamorati del vangelo”. Non si può essere Chiesa stando fermi e non si può essere Chiesa da soli. Si può essere Chiesa soltanto camminando insieme. Siamo diversi gli uni dagli altri e non solo per identità personale, ma anche per quanto ognuno di noi porta nel cuore: speranza e sconforto, serenità e angoscia, attesa e rassegnazione, pace verso tutti o rancore.
All’inizio del cammino dei pastori c’è una parola “non temete”. Il timore e la paura non sono una condizione eccezionale della persona, perché, pur traendo origine dagli interrogativi ultimi dell’uomo, si alimenta dei problemi e delle fatiche di tutti i giorni. In carcere il crollo di tante presunte certezze, il senso d’impotenza di fronte a scelte che altri fanno per noi, annullando la speranza di un futuro sereno, contribuiscono ad accrescere un profondo malessere. La tentazione prevalente è quella di rinchiudersi in sé stessi in una forma di egoismo che si chiude nel presente e non si apre più al futuro. Chi è in carcere e chi ha vissuto l’esperienza del carcere ha bisogno di “compassione” come mano tesa di un amico, una compassione che sia fiducia per riprendere il cammino. Perciò la Chiesa in uscita (come l’ha definita papa Francesco) deve entrare in carcere.
Il cammino dei pastori termina davanti ad una grotta nella quale il Figlio di Dio ha assunto la natura umana ed è venuto incondizionatamente incontro ad ogni uomo. Gesù entra nella storia e si fa prossimo soprattutto all’uomo sofferente, piegato e piagato dal male. Questa attenzione alla persona ed alle sue necessità mi pare possa essere un punto di partenza essenziale per il cammino insieme che il Sinodo propone. Anche chi è ristretto nella libertà è un “compagno di viaggio” ed ha tante aspettative verso una Chiesa che non solo sia di tutti, ma per tutti.

P.G.