L’equilibrio del sistema

Possibile far convivere nuova evangelizzazione e religiosità popolare

di Ugo Sartorio
Direttore del Messaggero di Sant’Antonio

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Di fronte alla richiesta di scrivere di nuova evangelizzazione e religiosità popolare, mi sono trovato in un certo imbarazzo. Far interagire due concetti che al momento non risultano così chiari ma soffrono di una vaghezza intrinseca che mette a dura prova - non da ora - ogni tentativo di precisazione, non è cosa agevole. Preferisco, quindi, tenerli inizialmente distinti per capire cosa ognuno di essi significhi veramente, per poi tentare una convergenza possibile.
 

Che cos’è «nuova evangelizzazione»?

Non si può negare che nuova evangelizzazione sia espressione di grande fascino e appeal, in grado di evocare quanto una pastorale stanca e spesso involuta fatica a prospettare, sull’onda di quel new di cui i contemporanei non sono mai sazi e che è la parola magica di ogni marketing. Anche se va ben capita. Perché, ci chiediamo, caratterizzare con l’aggettivo “nuovo” un compito di sempre come quello dell’evangelizzazione? Perché tanta insistenza sulla necessità di un nuovo inizio? Innanzitutto parlare di nuova evangelizzazione non significa affatto squalificare l’azione evangelizzatrice che la Chiesa ha sempre svolto con grande dedizione. E neppure fa riferimento a una semplice ri-evangelizzazione, poiché il suffisso “ri-” pone parecchi problemi, primo tra tutti l’orientare alla ripetizione di un’azione precedente risultata inefficace.

Di cosa si tratta, allora? Forse di fare le cose di sempre con nuovo entusiasmo, o piuttosto di cambiare l’agenda delle cose da fare? Sul presupposto che l’entusiasmo è sempre benvenuto, il punto della questione consiste - come leggiamo nei Lineamenta in vista del Sinodo dei vescovi del prossimo ottobre - nell’andare oltre il «business as usual» (oltre la «routine di sempre») che non macina più, quindi oltre quella pastorale formato bonsai che consiste nel continuare a fare con pochi (oltre che nello stesso modo) quello che prima si faceva con molti.

Vi è poi nella Chiesa, inutile negarlo, un perenne allarmismo determinato dalle molte urgenze che mandano la pastorale in affanno. La società è in vorticoso cambiamento e l’annuncio evangelico trova terreni sempre più indisponibili; l’appartenenza a qualsiasi gruppo, e quindi anche alla comunità cristiana, si fa flessibile, parziale, rarefatta; il credere si stempera in forme plurali e non raramente autoreferenziali. Fare nuova evangelizzazione significa allora rincorrere le molte emergenze? Sì e no, nel senso che se il vangelo non deve mai rinunciare a essere all’altezza della contemporaneità, non deve però farsene troppo condizionare. Per cui credo che vada colto un senso più profondo di nuova evangelizzazione che, senza escludere molti dei significati evocati, scaturisce dal vangelo e ci riporta sempre al suo cuore, nel senso che il vangelo è nuovo non perché non l’ho mai sentito, non perché affronta problemi nuovi, non perché lo ridico con parole nuove, ma perché è una notizia che tutte le volte che la sento mi rinnova e mi stupisce. Tornare come Chiesa al vangelo e annunciarlo dal suo centro, senza alterarlo, è una definizione più di altre «sostenibile» di nuova evangelizzazione.
 

Che cos’è «religiosità popolare»?

Anche su questo versante va fatta chiarezza. Perché, ad esempio, utilizzare religiosità e non religione, pietà, ma anche - come fa qualcuno - fede popolare? E di che popolo stiamo parlando, soprattutto in un tempo in cui il sentire comune si è distanziato da immagini collettive condivise e qualcuno giunge a parlare di società degli individui? Sulla “religiosità popolare” - preferiamo questa espressione ad altre - esistono una pluralità di letture: quella illuminista, che vede nella religione ufficiale un fenomeno di élite controbilanciato dalla fede ignorante del popolino; quella neomarxista (Gramsci, ad esempio) che ne fa termine di confronto e scontro tra classe dominante e classi subalterne; quella romantica, che mette in opposizione fede dei dotti e fede dei semplici; quella dell’antropologia culturale, che rivaluta il folklore religioso come ricerca di una perduta identità di gruppo. Si tratta, come si può vedere, di letture sostanzialmente dicotomiche, che leggono il fenomeno della religiosità popolare «in opposizione», vale a dire come sfondo per dare interpretazione del fatto sociale nella stratificazione dei suoi rapporti interni. Oggi dobbiamo andare oltre queste strettoie concettuali, anche perché non è vero che la religiosità popolare è religiosità dei poveri e tantomeno religiosità povera. Guardiamo a come si esprime, almeno in prevalenza: ai pellegrinaggi, alle sagre popolari, alle processioni, alle viae crucis, alle drammatizzazioni liturgiche della Settimana Santa... Chi se la sentirebbe di affermare che a queste espressioni devozionali partecipano solo persone di poca cultura o ai margini della Chiesa? Chi, ancora, giudicherebbe negativamente realtà che hanno implicazioni di fede profonde fino a essere viscerali? E, dopo tutto, è così vero che esiste, da qualche parte, una fede immune da coinvolgimenti soggettivi, tutta e solo istituzionale, da far valere come metro di paragone?

Dunque, la religiosità popolare è sia trasversale rispetto alla comunità dei credenti, sia di alto profilo rispetto al vissuto di fede. Anzi, ne dice per certi aspetti una punta avanzata, la qual cosa non significa che alcuni eccessi non siano da potare e alcune sbandate non vadano fatte rientrare, ma là dove la fede è vitale, dove c’è passione e coinvolgimento, questo accade normalmente.

In passato si è spesso parlato della religiosità popolare come di un fenomeno residuale destinato a estinguersi, ma sempre più, oggi, matura la convinzione opposta, vista la sintonia profonda che una religiosità esperienziale, che valorizza il corpo e i sensi facendo spazio a sentimenti ed emozioni, dimostra di avere col nostro tempo cosiddetto postmoderno.

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Convergenza

Se quanto detto è vero, le conclusioni vengono facili. Innanzitutto la religione non è al tramonto, ma in ogni epoca si trasfigura e prende forma (oltre che dare forma) a partire dalla nuova configurazione del mondo. Se nuova evangelizzazione è la novità sorgiva del vangelo che va comunicata all’interlocutore (credente e non) in tutta la sua originalità, nella religiosità popolare non mancano elementi di supporto alla nuova evangelizzazione. Se è vero che la religiosità popolare va evangelizzata, essa è al contempo e a pieno titolo evangelizzatrice per il fatto che custodisce un vangelo già mescolato con la vita, tradotto in chiave esperienziale, attento ai bisogni profondi, attraente e perciò contagioso.