In via dei Matti numero zero

Rendere concreto il sinodo affinché non diventi un’astrazione

 di Gilberto Borghi
della Redazione di MC

 Oggi, come stiamo camminando con Gesù e con i fratelli per annunciarlo? Per il domani, cosa lo Spirito sta chiedendo alla nostra Chiesa per crescere nel cammino con Gesù e con i fratelli per annunciarlo?

Queste sono le due domande generali che la CEI propone come traccia-stimolo per la prima parte del cammino sinodale della Chiesa italiana appena iniziato. La prima volta che le ho lette mi sono stupito e mi sono chiesto: ma dove vive quello che le ha pensate? Credere che la Chiesa italiana, quella vera, fatta di persone in carne ed ossa possa davvero provare a rispondere a queste domande significa non rendersi conto delle condizioni in cui essa versa.

 Quali cristiani?

Del totale dei battezzati italiani, a frequentare con una certa regolarità la vita religiosa è appena un 12% circa, dato costantemente calante. L’ignoranza delle più elementari basi della fede cattolica è misurata costantemente da noi insegnanti di religione sui banchi di scuola, quando ci rendiamo conto che parole come resurrezione, eucarestia, incarnazione, trinità, diocesi, sacramento, ascesi, vanno rispiegate completamente da capo, perché pienamente assenti o travisate nella conoscenza dei ragazzi. Sulla rete, qualsiasi persona che si avventuri in questi temi confonde con grande tranquillità fede, religione e spiritualità; crede che papa, vaticano e CEI siano la stessa cosa; da più parti riemergono fedi fatte di rivelazioni private e esperienze miracolistiche, di angeli e demoni, di “fai il buono così Dio ti dà la salvezza”.
A fronte di questo, ciò che fa notizia sulla Chiesa in Italia, sono l’aggiornamento giornaliero dell’elenco dei preti pedofili “pizzicati”, la decisione di non benedire le unioni omosessuali, le stranezze di preti che non sanno più come fare per rendersi ascoltabili e degni di attenzione, l’ennesimo caso di avidità economica del parroco di turno, il continuo ripetere che la morale è solo soggettiva e che il cattolicesimo si deve adeguare ai tempi. La stragrande maggioranza del popolo di Dio, in Italia, sembra pervaso da un sentimento di smarrimento e totale disorientamento e tende a restare impotente e bloccato, di fronte a questo paesaggio, continuando semplicemente a “fare come si è sempre fatto”, fin che si può. Le donne under 50, gli intellettuali e i giovani già da tempo hanno cominciato ad abbandonare la “nave”. I preti passano dalla depressione all’attivismo sfrenato per non pensare, nella ricerca stressante di un difficile equilibrio umano.

 Quali domande?

In tutta la Chiesa consapevolezza, equilibrio, saggezza, pazienza, serenità, forza interiore, abbandono fiducioso a Dio sembrano davvero merce rara. E in questa condizione i vescovi pretenderebbero che si fosse davvero in grado di rispondere a quelle domande così alte, profonde e ampie. Se non si ha il coraggio di “scendere” e “tradurre”, resteranno domande impossibili.
Primo, scendere. Che non vuol dire abbassare il livello di analisi, ma al contrario rendere concreto e reale il livello di ascolto della prima fase del sinodo. Le questioni che abitano davvero il cuore degli italiani, di fronte alla dimensione spirituale della vita, forse sono altre. Le domande “sul senso” si sono davvero riaperte. Noi insegnanti di religione lo vediamo quotidianamente da qualche anno. Ma sono lontane mille miglia da quelle che la CEI ha immaginato per il cammino sinodale. Hanno a che fare con l’identità personale, con il “chi sono io” e se “davvero esisto”, cioè se davvero “conto” per qualcuno. Hanno a che fare con la disperata ricerca di un equilibrio, o almeno di una comunicazione, tra ciò che si sente, ciò che si vuole e ciò che si pensa. Rispetto, soprattutto, a ciò che la società vorrebbe che si facesse. Hanno a che fare con il ruolo che può ancora occupare Dio nella propria vita, adesso che i bisogni essenziali sembrano soddisfatti con una certa tranquillità, adesso che i bisogni secondari sembrano costantemente appagati dalla rete, adesso che i desideri veri sembrano essere stati messi nel cassetto e che al loro posto sono stati inoculati bisogni indotti, già belli e pronti per essere realizzati comprando il prodotto del primo spot del mattino. Hanno a che fare con la domanda angosciosa e costantemente silenziata dal ritmo delle giornate ordinarie se davvero la vita sia tutta qui. Hanno a che fare con la sensazione che la Chiesa si sia chiusa nella sua cittadella e che perciò chi ancora ha il coraggio di “cercare” un senso se lo vada a costruire altrove.

 Quale fede?

Secondo, tradurre. Camminare e annunciare sono verbi astratti, di un altro pianeta rispetto alla vita quotidiana delle persone in carne ed ossa. E non tanto per l’impossibilità di coglierne il significato letterale. Quanto piuttosto perché presuppongono, per essere significativi, esperienze oggi estremamente rare e mediamente irrealizzabili. Camminare presuppone che lo svolgersi del tempo abbia un senso, una direzione, un valore nel collegare il prima e il dopo, una meta a cui tendere. Mentre i fedeli di oggi vivono nel “qui e ora”, nel “salviamo il salvabile”, nel “non so dove andare”, nel tempo reale, dogma tipico della post modernità, a cui la Chiesa non può semplicemente sottrarsi, pena la sua esclusione dal mondo. Perché, certo, la Chiesa non è del mondo, ma ha senso solo ed esclusivamente se vive nel mondo, non fuori da esso. Perciò camminare è un verbo irricevibile, semplicemente perché non c’è più la categoria culturale, nella mente dei più, che lo possa accogliere e significare. Lo stesso insistere della Chiesa che vuole chiamare “cammino sinodale” e non semplicemente “sinodo” questo tempo, risulta davvero anacronistico. Nel tentativo di far passare l’idea, di per sé vera, che il sinodo non è un evento, ma uno stile, un modo di credere, rischia di far passare soltanto la percezione che nemmeno i vescovi sappiano bene poi come andrà avanti questo “processo”. E se per qualcuno questo potrebbe aprire uno spiraglio all’azione dello Spirito e alla possibilità, quindi, che il sinodo possa davvero essere efficacie, per moltissimi segnala invece l’aumento della sensazione della deriva della nave, che non consente certamente una riflessione serena e lucida sulla Chiesa.
Annunciare. Un verbo che ipotizza una notizia nuova, qualcosa di importante che vale la pena dire forte e chiaro a tutti. Qualcosa che sa di inizio. Perciò anche qualcosa carico di energia e forza, che ancora dovrà espandersi e fiorire, e poi dare frutto. Per poter annunciare, perciò, ci vogliono condizioni, personali e comunitarie, agli antipodi di quelle che sembrano pervadere i cattolici italiani. E questo porta in mezzo una questione che le domande della CEI danno per scontata, ma che scontata non è: abbiamo davvero ancora fede? Siamo ancora capaci di vivere effettivamente una relazione con Cristo risorto che ci sorprenda, ci ricarichi, ci scuota, ci faccia alzare e sorridere con gioia? Annunciare richiede che per prima cosa ci guardiamo dentro e proviamo ad ammettere la nostra stanchezza, fatica e delusione, nel nostro avere a che fare con Cristo. Perciò la prima domanda da riproporre davvero sarebbe: chi è per te Gesù Cristo? Che posto effettivo occupa nella tua vita?