Alta fedeltà

Il rapporto di Francesco con la Chiesa è all’insegna, innanzitutto, dell’appartenenza a essa 

di Grado Giovanni Merlo
storico

 Sui rapporti tra Chiesa cattolico-romana e frate Francesco d’Assisi le posizione degli studiosi non sempre coincidono, anzi spesso divergono talora in modo radicale. Non possiamo qui farne una illustrazione puntuale.

Limitiamoci a due delle principali linee interpretative. Una afferma un rapporto non lineare, se non conflittuale del Poverello con i vertici ecclesiastici, talvolta visti come “strumentalizzatori” della sua “santità” e dell’esemplarità della sua fraternità. L’altra linea interpretativa vede una funzione di grande supporto del futuro santo alla “riforma” di una Chiesa “in crisi”.

 La Chiesa e la Curia

Si tratta di interpretazioni rispettabili, ma lontane da un rigoroso uso della documentazione che necessita di un’esegesi altrettanto rigorosa. Per cercare una risposta fondata, positiva e propositiva, la strada più sicura è ricorrere, prima di tutto, agli Scritti di frate Francesco. Muoviamo dal suo Testamento. In questo documento finale, riassuntivo dei punti cardine della sua vicenda umana e religiosa, si nota una distinzione abbastanza netta tra Chiesa romana e Curia romana: la prima entra a pieno titolo nella esperienza evangelica di frate Francesco e dei suoi fratelli; la seconda, invece, può essere occasione di allontanamento e di deviazione dal “vivere secondo la forma del santo vangelo”.
Muoviamo dall’ultimo punto. Nel Testamento si legge: «Comando fermamente per obbedienza a tutti i fratelli/frati che, dovunque si trovino, non osino chiedere lettera alcuna [di privilegio] nella Curia Romana, né personalmente né per interposta persona, né a favore di una chiesa o di altro luogo, né sotto il pretesto della predicazione, né per la persecuzione dei loro corpi» (FF 123).
Il ricorso alla Curia romana per ottenere privilegi - dal punto di vista giuridico del tutto legittimo - snaturerebbe, nella concretezza delle umane cose, l’essere fratelli/frati minori, cioè essere come coloro che non contano niente nella società e nelle istituzioni e che, essendo sottomessi a tutti, sono senza alcun diritto. 

Rimanere cattolici…

Per altro verso, la Chiesa romana è vista come totalmente distinta dal suo organo burocratico-amministrativo. Quando lo ritiene necessario, frate Francesco si rivolge direttamente al papa, sia esso Innocenzo III nel 1209, sia esso Onorio III nel 1220. Il papato romano è visto come istituzione legittimante: «Dopo che il Signore mi diede dei fratelli/frati, nessuno mi mostrava che cosa dovessi fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la forma del santo vangelo, e io [lo] feci scrivere con poche parole e con semplicità, e il signor papa me [lo] confermò» (FF 116).
Il papato è al tempo stesso centro disciplinatore, anche attraverso il potere delegato dal papa, per esempio, a un cardinale (che poi verrà detto protettore): «il signore di Ostia [cardinale Ugolino] che è signore, protettore e correttore di tutta la fraternita» (FF 126).
A sua volta, la Chiesa romana, di cui il papa è al vertice, è indiscutibile garante di ortodossia, della verace tradizione cattolica. I fratelli/frati devono essere cattolici. Soprattutto la assoluta centralità eucaristica esalta il sacerdozio o, meglio, il ruolo dei «sacerdoti che vivono secondo la forma della santa Chiesa romana», poiché «essi ricevono ed essi soli amministrano agli altri il santissimo corpo e il santissimo sangue dell’altissimo Figlio di Dio» (FF 113). Corpo e sangue soltanto, si badi, sono quanto del Figlio di Dio corporalmente è visibile - e frate Francesco vede - in questo mondo.

 …e soggetti alla Chiesa

Tra vivere secondo la forma del santo vangelo e vivere secondo la forma della santa Chiesa romana non c’è alcun contrasto né incompatibilità. Lo confermano in modo fermo e definitivo le parole che chiudono la cosiddetta Regola bollata del 1223, parole sulle quali non sempre ci si sofferma, pur essendo esse in modo esplicito di frate Francesco: «Ingiungo per obbedienza ai ministri che chiedano al signor papa uno dei cardinali della santa Chiesa romana, il quale sia governatore, protettore e correttore di questa fraternità, affinché sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa Chiesa, stabili nella fede cattolica, osserviamo la povertà e l’umiltà e il santo vangelo del Signor nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso» (FF 109).
Il vertice della santa Chiesa romana è voluto da frate Francesco quale garante istituzionale del vivere secondo la forma del santo vangelo, che era la scelta e l’impegno di vita dello stesso Francesco e dei suoi fratelli/frati.
A questo punto ci si potrebbe chiedere se si tratti di un rapporto implicante anche un “invito dal basso” affinché le massime gerarchie ecclesiastiche, nella loro azione di guida e di disciplina, si ispirino con costanza e coerenza alla Buona Novella. Rispondere a tale questione è assai difficile e, forse, occorre muovere proprio dalla minoritas, cioè l’essere minori rispetto a tutti gli altri uomini e rinunciare alla propria volontà. La minorità comporta di affidarsi alla superiore volontà di Dio, affinché si possa esprimere e compiere il Suo disegno.

 

 

 

Dell’Autore segnaliamo:
Frate Francesco
Il Mulino, Bologna 2017, pp. 182