Il pastore errante e le pecore salvate

Il popolo di Dio non è un gruppo esclusivo, ma un gregge dai confini incerti

 di Stefania Monti
suora clarissa cappuccina a Fiera di Primiero, biblista

 Dobbiamo al Concilio Vaticano II, in particolare al secondo capitolo della Costituzione Lumen Gentium, la riscoperta del fatto di essere un popolo e il popolo di Dio.

Tale consapevolezza è sempre stata molto chiara per Israele e si radica nel Primo Testamento, nelle promesse ai patriarchi, nella liberazione dall’Egitto, nel ritorno dall’esilio di Babilonia e in generale in tutti i gesti salvifici del Dio del roveto che si è rivelato a Mosè, appunto, come il Dio di un popolo a partire dai suoi antenati (Es 3,14). Benché il testo conciliare faccia riferimento a citazioni del Nuovo testamento, a ben guardare quasi tutte si radicano nel Primo. Già parecchi decenni fa Roland de Vaux aveva affrontato il problema terminologico e aveva chiarito che nell’ebraico del Primo Testamento si leggono due termini chiave ῾am e goy. Il primo è riferito in maniera privilegiata a Israele come avesse un rapporto di sangue con YHWH. Il secondo è riferito per lo più alle altre popolazioni”, che con Israele interagiscono non sempre amichevolmente. I LXX seguono fedelmente lo schema e traducono ῾am con laos e goy con ethnos, per lo più al plurale in corrispondenza all’ebraico goyim, arrivando quasi a una specializzazione dei termini. Negli autori classici infatti laos indica un gruppo numeroso, una folla, della gente. Inoltre il greco classico conosce anche il termine dēmos, per “popolo”, che è legato piuttosto alla vita civile e politica ma è poco presente nei testi biblici e quasi sempre col valore di “folla”, “gente”. I redattori del Nuovo Testamento si mantengono fedeli all’uso dei LXX e adoperano laos in riferimento alla Chiesa, ethne in riferimento agli altri popoli, dēmos riferito alla “folla”.

 Radicati in Israele

La cosa è comprensibile: evangelisti e redattori sono ebrei e hanno in mente le promesse, gli oracoli e i termini veterotestamentari con i quali si identificano. Non pensano di essere qualcosa di nuovo o di diverso. Tutto quello che gli è familiare si è compiuto nella Pasqua di Gesù, il Kyrios, e la prima predicazione avviene frequentando le sinagoghe o il Tempio, realtà alle quali essi restano fedeli. Anche il primo itinerario paolino è da una sinagoga all’altra. Si veda, per esempio, Paolo ad Antiochia di Pisidia (At 13,15) allorché viene invitato a fare l’omelia: era infatti consuetudine invitare a questo chi fosse di passaggio, magari anche per sapere le ultime novità.
Visto però che confratelli e connazionali stentano a riconoscere l’avvenuto compimento delle promesse, gli apostoli sono indotti dall’insuccesso, quando non dalla persecuzione, a credere che il popolo di Dio non sia fatto solo di israeliti, ma anche di altri, i goyim, purché accettino nella fede l’alleanza offerta da Dio con le responsabilità che questo comporta. Emerge cioè un’istanza universalistica che ancora non era così esplicita, tanto è vero che Pietro ricorre a una visione per rendere ragione del suo contatto con Cornelio (At 10,9ss-11,1ss) e Paolo al sogno del macedone che gli chiede di andare in loro aiuto (At 16,9ss). Entrambi cioè hanno bisogno di qualcosa di soprannaturale per motivare al collegio apostolico le loro decisioni.

Una difficile apertura

Certo, il problema è complesso: per integrare i goyim è necessario un passaggio attraverso Israele con la circoncisione o basta il solo battesimo? Tutta la Torah o solo parte di essa? Oltre a questi problemi, per così dire, dottrinali, nonostante il quadro idilliaco dei sommari di Atti (2,42ss; 4:32ss) quello che nasce gradualmente è un popolo tumultuoso, in cui le tensioni sono molte e molte le incoerenze fin dall’inizio (per es. At 5,1ss-6,1). Si chiarisce comunque, a poco a poco, che anche i goyim sono chiamati a far parte dell’alleanza, più volte rinnovata e che chi era non-popolo è chiamato ad essere popolo di Dio (1Pt 2,10, riprendendo un antico oracolo di Osea), senza sostituire Israele. Certamente l’elaborazione di questa diversa sensibilità ha richiesto tempi lunghi, non è stata indolore e neppure irreversibile.
Ancora adesso i capitoli 9-11 della lettera ai Romani sono pressoché assenti dal nostro lezionario e presenti in misura ridotta nella liturgia delle ore; ancora adesso si continua a parlare della Chiesa come novus Israel, o verus Israel, ma, ancor più, citando malamente Giovanni, si parla di “un solo ovile e un solo pastore”, mentre il testo parla di “gregge” con un gioco di parole in greco ben memorizzabile (mia poimnē, eis poimēn, Gv 10,16). Si dirà che è un dettaglio, ma l’ovile è un recinto rispetto al quale qualcuno può restare fuori, il gregge è una realtà inclusiva in cui ognuno è libero di aggregarsi o andarsene.
La lettera agli Efesini (2,14) parla di un muro di separazione che è stato abbattuto e di un mistero nascosto nei secoli e adesso rivelato: dei due un popolo solo. Tutto Ef 2 parla di questa realtà: di una piena cittadinanza e di un popolo in costruzione come un tempio che cresce ordinato. Tale popolo di Dio è una realtà composita nella quale non ci sono gerarchie se non in chiave funzionale, ma tutti sono chiamati all’unità della fede e a crescere fino alla maturità di Cristo. E Israele? Israele è sempre e indubbiamente popolo di Dio. Come aveva detto Martin Buber, e non lui solo, siamo entrambi seduti nell’atrio del santuario e siamo in attesa. Quando il Messia verrà, Israele potrà riconoscere colui che per noi era già noto.

 I salvati anonimi

Dunque il popolo di Dio va oltre la Chiesa non solo perché la sua vocazione evangelizzatrice tende a raggiungere altri popoli per accrescerlo, ma perché non può comunque ignorare o prescindere dal fatto che alla sua base c’è Israele. Il popolo di Dio è più vasto della Chiesa, Cornelio, per esempio, già ne faceva parte, in qualche modo, quando ha deciso di contattare Pietro (At 10,1-8). Si tratta appunto di un gregge del quale nessuno può dire chi sia fuori e chi sia dentro. Come se il Pastore pascolasse di frodo e spostasse i confini del suo pascolo, nessuno di noi può sentirsi assolutamente “dentro” o assolutamente “fuori”. Del resto chi sono “gli invitati al banchetto di nozze dell’agnello” (Ap 19,9)? In questa scena finale dell’Apocalisse c’è un popolo nella gloria di cui non viene detto chi siano i membri.
La prima cosa da notare è comunque che questo popolo è il bene ultimo della rivelazione: tutte le altre realtà umane sono penultime, anche le più venerabili, come la famiglia, la Chiesa, i sacramenti; restano definitivi gli invitati che non hanno un volto preciso. Si può pensare che siano la stessa “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa” di 1Pt 2,9; coloro che hanno vissuto secondo il comandamento dato da Gesù (cf Gv 14,15; 15,12); che sono stati “sale della terra e luce del mondo” (Mt 5,13-16). In ogni caso questi cittadini della celeste Gerusalemme ci sono sconosciuti. Attestano semplicemente che la realtà del popolo di Dio travalica tutte le altre. Circondati da angeli e santi, specialmente dai martiri, entrano nella gloria della liturgia celeste e magari molti di loro non hanno conosciuto neppure quella terrena, ma come si è già detto, la realtà del popolo di Dio supera quello che si vede ed è significativo che l’Apocalisse ne protegga l’anonimato.