Dal basso! Tutti coloro con cui ho potuto discutere sul Sinodo della Chiesa italiana dichiarano questo mantra. Il Sinodo deve nascere dal basso. Una parola! Una parola per nulla praticata nella Chiesa. E già nel suo primo passo assolutamente iniziale, il Sinodo nasce dall’alto, dal culmine della piramide che si ipotizza quando si parla di alto e basso. Fu, infatti, papa Francesco a richiamare, sospingere e quasi obbligare i vescovi italiani, a Firenze nel 2015, a indire il Sinodo.

a cura di Gilberto Borghi

 Chi galleggia muore

Vie possibili verso la sinodalità

 In questi sei anni la questione è rimasta molto a “galleggiare” fino a che la CEI si è decisa a far partire ufficialmente il “tempo” del Sinodo.

Cioè dal gradino più alto si è scesi ad un gradino inferiore. Ora da qui si è scesi nel terzo gradino: le singole diocesi. Per quel che ho potuto vedere, alle diocesi sono arrivate indicazioni ben precise e dettagliate sul quando, il come, il chi e soprattutto il cosa.

 Auspicio

Qualche decina di associazioni, gruppi e movimenti ecclesiali italiani hanno auspicato «che il percorso sinodale sia il più aperto, inclusivo e partecipativo possibile, coinvolgendo non solo chi frequenta abitualmente le nostre parrocchie e associazioni, ma pure quanti, per diverse ragioni (anche di visione etica o teologica), sono stati messi ai margini o si sono allontanati dalle nostre strutture pastorali (…). Solo un processo di profondo ascolto, di autentica discussione, di dialogo sincero, di ricerca comune e di deliberazione condivisa, che implichi tutte le componenti del corpo ecclesiale e tutte le voci (comprese quelle ferite o critiche e interpellando anche i fratelli e le sorelle delle altre Chiese cristiane), chiamate a esprimersi su un piano di parità, con piena libertà e senza argomenti ‘proibiti’, può, infatti, innescare quella conversione pastorale sempre invocata»; si augurano «una consultazione che parta dal basso, comunità per comunità, diocesi per diocesi, per costruire un consenso a partire dalle esperienze, dalle preoccupazioni, dalle proposte emergenti dalla base ecclesiale, e destinato a tradursi in decisioni assunte di comune accordo».
Di fatto, l’ufficio centrale della CEI che si occupa del Sinodo ha già elaborato una sorta di Instrumentum laboris già arrivato alle diocesi. Ma si potrà discutere anche di ciò che non è presente nell’Istrumentum, soprattutto se non in linea? E soprattutto, anche se nelle diocesi verrà dato spazio ad altro, ciò che viene detto e proposto che fine farà? Sono convinto, infatti, che in qualche diocesi la consultazione locale potrebbe anche portare ad un risveglio di partecipazione ecclesiale effettiva; però credo che ciò non sarà la maggioranza dei casi. Ma, comunque, le indicazioni provenienti dalla base rischieranno di essere prontamente assunte dentro a un testo, la cui prospettiva però potrebbe neutralizzarle il più possibile.

 Oltre la paura

Non è un mistero che la Chiesa avverta una condizione diffusa di paura e di crisi. La paura tende a bloccare e far restare fermi, mentre la crisi spinge a cercare di salvare il salvabile. Perciò un Sinodo fatto in condizioni di paura e di crisi temo che difficilmente smentisca, con coraggio e creatività, il contesto di partenza. Don Abbondio docet! Sono dell’avviso che la variabile davvero interessante, che potrebbe sul serio modificare questa ipotesi di prospettiva, in cui il Sinodo sarebbe quasi solo una formalità, sarebbe l’ascolto vero del popolo di Dio. Ma questa è un’attitudine, uno stile, che non si improvvisa con uno strumento organizzativo, pur se gli strumenti ci vogliono, ma si affina col tempo dedicato alle relazioni concrete con la gente.
Resta vero, però, che esistono abbastanza fedeli (laici e consacrati) che sentono forte l’esigenza di non fare finire il Sinodo come l’assoluzione di un impegno preso, senza particolari effetti pastorali. Credo che ognuno di loro abbia il dovere morale di trovare tutti i modi per “esserci” e per pungolare, criticare, proporre alternative, facendosi sentire in ogni luogo possibile e a tutti i livelli possibili. Forse esiste anche il carisma del rompiscatole! Per ciò che mi riguarda ci proverò. E proverò a far sì che le scelte metodologiche adottate nella diocesi a cui appartengo diano effettivamente spazio e voce a tanti che chiedono alla fede una luce e una fede più attraente e capace di essere energia vitale che sprona chiunque, in un tempo di passioni tristi e di orizzonti di senso quasi chiusi. In questo senso segnalo due tematiche che, a mio avviso, andrebbero discusse.

 Due tematiche

Primo. Le notizie che ancora continuano a rivelarsi sul dramma della pedofilia, richiedono che si discuta seriamente della maturità umana dei credenti. Non voglio discutere della pedofilia in sé, ma di quanto e di come le condizioni umane in cui la grazia incontra il cuore umano incidano sulla possibilità della sua espansione nella persona. Il dato che spesso si cita, secondo cui la
pedofilia dentro la Chiesa ha le stesse percentuali che fuori da essa, non è rassicurante, perché ci dice che la fede sembra essere incapace di segnare una differenza morale degna di questo nome. Il centro della questione non sono tanto gli abusi, ma la maturità esistenziale e psicologica dei credenti, che non libera sufficientemente la forza interiore della fede e della grazia, e impedisce che i propri comportamenti etici si differenzino sostanzialmente dai non credenti. Non possiamo più minimizzare e passare sotto silenzio questo dato reale.
Secondo. Che ci piaccia o no la figura del prete è ancora centrale nella vita pastorale concreta. Il calo dei preti richiede per forza un cambiamento del suo ruolo, altrimenti la vita delle comunità si restringerà ancora di più fino a morire. E richiede che i laici si assumano oneri, compiti e ruoli che oggi sono assorbiti dal prete, ma che sul piano teologico non sarebbero certo il suo specifico ministero. Ne deriva anche la necessità di verificare come i preti vengono formati e gestiti a livello diocesano. Perché credo che, nel prossimo futuro, i pochi che ci saranno dovranno essere umanamente molto solidi, con una vita spirituale autentica e una competenza spirituale e comunicativa che oggi è davvero rara tra di loro. Credo che abbia molta ragione don Maurizio Patriciello che scrive: «Vi assicuro, non è facile, oggi, essere prete, ma è incredibilmente bello e interessante. A certe condizioni, però, sulle quali non può soprassedere né il diretto interessato né la Chiesa locale. Prima condizione: chi bussa alla porta del seminario deve essere una persona profondamente onesta, fragile magari, ma onesta. Una persona amante della verità, che mai ricorrerebbe alla menzogna. Umile, cioè capace di chiedere aiuto nel momento del bisogno. La diocesi deve essere in grado di esaminare attentamente il postulante, prepararlo, formarlo, ma anche deve avere il coraggio, nel momento in cui si accorge che la strada è un’altra, di invitarlo a desistere».
Spero davvero che il Sinodo italiano abbia il coraggio di guardare in faccia queste situazioni e di provare a capirle e creativamente cercarne soluzioni migliorative.