Da che pulpito

Ripensare il dialogo fra Chiesa e Mondo su sessualità, giustizia sociale, diritti

 di Gilberto Borghi
della Redazione di MC, insegnante di religione, pedagogista clinico e formatore

  I testi del Vaticano II non lasciano dubbi sul fatto che la parola dialogo sia una di quelle chiavi del Concilio, sia intendendolo come dialogo interno alla Chiesa, sia come interreligioso, sia come dialogo col “mondo”.

Su quest’ultimo, fino circa a metà degli anni Ottanta, due interpretazioni avevano campeggiato in area cattolica, almeno in Italia. Da una parte il dialogo col mondo era stato tradotto con la parola chiave “presenza”: il laico cristiano era chiamato, in ogni ambito della vita, a rendersi presente come cristiano, ben riconoscibile perciò in questa sua connotazione, per cercare di indirizzare il mondo verso una vita sociale di stampo cattolico. Perciò il dialogo aveva l’obiettivo di tradurre direttamente il vangelo per la costruzione della società umana in stile cattolico. Sessualità, giustizia sociale e diritti venivano perciò portati nel dialogo col mondo con già una loro definizione e verità precisa, che si cercava di proporre come verità per tutti gli esseri umani.
Dall’altra parte il dialogo col mondo era stato tradotto col termine “mediazione”: il laico cristiano era chiamato a trovare, in ogni ambito di vita, mediazioni culturali che potessero consentire di trovare un accordo con chi non era di area cattolica, affinché la costruzione della società umana avvenisse basandosi su principi condivisi sia da cattolici che da non cattolici. Il dialogo aveva, quindi, l’obiettivo di costruire uno spazio di accoglienza dei cattolici nelle varie dimensioni della vita, affinché poi esse potessero lievitare verso uno stile condivisibile da cristiani e non cristiani. Sessualità, giustizia sociale e diritti venivano portati dentro al dialogo cercando di individuare principi etici e antropologici su cui ci fosse convergenza di entrambe le parti. La storia di quel periodo ci mostra come lo scontro tra queste due anime cattoliche assorbì, spesso, molte delle loro energie, che più che provare a tradurre in scelte concrete la propria visione, finirono per diventare abbastanza “autoreferenziali”, riducendo il dialogo col mondo a scontro interno fra fazioni ecclesiali.

 Le domande della postmodernità

Nel contempo il mondo cominciava a cambiare molto profondamente e dalla tarda modernità nasceva gradualmente quello che chiamiamo oggi post-modernità. Questa nuova era culturale modifica almeno tre elementi essenziali, che condizionano il dialogo col mondo. Intanto lo sfaldamento delle ideologie lascia campo libero ad un moltiplicarsi all’infinito delle identità culturali. Oggi è difficile capire davvero chi sia di area laica, chi cattolico, di sinistra o di destra. Perciò la domanda cruciale diventa: da quale punto di partenza affrontiamo il dialogo? In secondo luogo la frammentazione sociale spinge potentemente verso una moltitudine di persone che non si sentono più società, ma individui isolati le cui appartenenze a determinate visioni ideali del mondo sono spesso emozionali, parziali e momentanee. E qui la domanda diventa: con quale mondo proviamo a dialogare? Terzo, la delegittimazione delle istituzioni crea un pregiudizio molto forte verso chi si presenta a dialogare in nome di qualcun altro, sia esso anche la Chiesa o Dio stesso. E qui la domanda che ci richiama è: a nome di chi dialoghiamo?

Conseguenza del non aver capito in tempo questi caratteri del cambiamento è stato il fallimento del primo tentativo di ri-adeguare, in Italia, il dialogo tra chiesa e mondo, alla situazione post-moderna: mi riferisco all’impostazione dei valori “non negoziabili”. Visto che sia la “presenza”, sia la “mediazione” sembravano non essere più in grado di avere sufficiente efficacia (anche per lo stravolgimento dello scenario politico), il laico cristiano venne invitato a diffondere la sua presenza in ogni forma partitica, per cercare punti di collegamento possibili, ma senza mai mettere in discussione alcuni valori essenziali che ne qualificarono, perciò, la propria identità, soprattutto agli occhi di chi cristiano non era. Qui la sessualità ha sicuramente giocato un ruolo più rilevante che non la giustizia sociale o i diritti, come pure tutte le altre tematiche connesse con la corporeità (inizio/fine vita e identità personale). La conseguenza è stata quella di allontanare ulteriormente il mondo non cristiano dalla Chiesa, perché vista ancora come ideologica, troppo istituzionale e poco incline alla personalizzazione del dialogo.

 Tra moralisti e zerbini

Oggi la situazione sembra abbastanza segnata dalla sensazione del day after, dallo smarrimento e dalla confusione sulle tre domande che ci siamo posti prima. Ma forse alcune linee di fondo si possono provare a descrivere. Quelli che sembrano occupare maggiormente lo spazio di questo dialogo possibile (perché fanno rumore sui social e a livello politico), sembrano farlo partendo da un presupposto molto radicale: il mondo è totalmente fuori dalla volontà di Dio; non si possono, perciò, ricercare punti di convergenza, ma soltanto ammonire il mondo, giudicarlo e distanziarsi da esso per non perdere la propria identità di fede. Come se davvero il mondo possa sfuggire dalle mani di Dio, come se Dio non possa trovare il modo di parlare all’uomo anche fuori dalla Chiesa che si difende da esso. In termini di tematiche discutibili sembra vincere, di gran lunga, quella dei diritti individuali in campo economico e politico, mettendo, quindi in ombra la giustizia sociale e mostrando una (apparente?) posizione tradizionale per ciò che riguarda la sessualità. Il dialogo che ne viene parte da una identità molto determinata e palesata, verso un mondo immaginato un tutt’uno da redimere, a nome del Dio della tradizione ecclesiale.
Un'altra linea, meno rumorosa, con cui la Chiesa oggi cerca un dialogo col mondo è quella di una rilettura meno dogmatica e più “naturale” del vangelo, che metterebbe capo ad una visione della fede più malleabile ed adattabile, sia sul piano teologico che su quello morale, ad alcune inclinazioni della post modernità. Qui il dialogo rischia di prendere la forma di una sorta di “zerbinatura” del cristiano alla persona non di fede con cui ci relazioniamo. In termini di tematiche prioritarie qui prevale una forte spinta a sottolineare i diritti individuali soprattutto di carattere civile e personale, che spesso si colora del «voglio fare quello che mi pare», anche quando questo tende a modificare i dati di realtà della natura, della psicologia e della sociologia. Questa enorme rilevanza della volontà individuale ha come conseguenza lo sventolio apparente della giustizia sociale, resa però inapplicabile dall’ipertrofia dell’io, e una liberalizzazione sessuale che consegna completamente il senso di questa relazione umana alla volontà del singolo. Qui l’identità di partenza del dialogo è molto sfumata e soprattutto taciuta; il mondo a cui ci si rivolge è pensato come un tutt’uno da rendersi amico e si dialoga in nome della propria interpretazione del vangelo.

 I caratteri del dialogo

Personalmente credo che questo non possa bastare. Entrambe queste visioni del dialogo restano prese dentro alla morsa dell’individualismo post moderno e non riescono così ad aprire davvero alla presenza dello Spirito che opera nella storia, prima e davanti a noi.
Il dialogo col mondo oggi è possibile solo se il cristiano lo pensa con tre caratteri. Intanto, che a dialogare sono sempre le persone concrete e non le idee: la realtà è superiore all’idea, dice Francesco. Perciò dobbiamo cercare di generalizzare il meno possibile e restare a contatto reale con l’altro, così come egli si dà. In secondo luogo che non siamo rappresentanti di nessuno, né del Dio che abbiamo in testa, né della Chiesa a cui diciamo di appartenere, ma solo di noi stessi e di come Dio lavora dentro di noi. Dialoghiamo individualmente, non a nome di gruppi e il nostro dialogo si alimenta della nostra esperienza personale di fede, non delle risposte preconfezionate. Terzo. Che il dialogo esiste se è a tre: colui che si ritiene credente, l’altro che forse non sa se è credente o meno e lo Spirito Santo che lavora dentro ad entrambi. Ci viene chiesto perciò di liberarci dalla presunzione di essere noi a tessere un dialogo dove e come vogliamo e per gli obiettivi che pensiamo giusti. E di tessere un dialogo laddove invece la vita ci porta (perché sospinta dallo Spirito), nella certezza di fede che Dio non è assente dal cuore delle donne e degli uomini che incontriamo ogni giorno. Qui il dialogo ha come punto di partenza una identità strettamente connessa al rapporto con Gesù Cristo, perciò definita, ma elastica e sempre disponibile a ridefinirsi; il mondo viene concepito come un insieme variegato di persone che nella loro unicità hanno qualcosa da dire anche loro su come il vangelo possa essere vissuto oggi; l’azione dialogante è fatta in proprio, ma nella forza dello Spirito che ci abita e che convoca e dirige questa stessa azione.
Ciò significa che, in concreto, la prima cosa da fare perché un dialogo possa esserci davvero è quella di provare a scovare come e dove lo Spirito sta agendo in noi e in quella persona. Osservare e ascoltare in profondità sia l’altro sia me per cogliere il lavoro dello Spirito, non sono strumenti tattici, ma sono condizione teologica indispensabile, affinché il dialogo non sia in mano nostra, ma di Dio. Sessualità, giustizia sociale e diritti saranno perciò declinati a partire dalla situazione concreta che quella persona vive, che non ci viene chiesto di giudicare, né di cambiare, ma di accettare come punto di partenza su cui lo Spirito lavora. Una volta che siamo stati in grado di ritrovare la traccia dello Spirito in lui e in noi, ci viene chiesto in prima battuta di confermare tale traccia, non di dogmatizzarla o imporla. E dopo aver osservato verso dove lo Spirito sta portando quel dialogo, provare rispettosamente a farlo crescere, se ci è possibile, nella direzione di una maggiore pienezza evangelica.