Una coppia sposata come referente pastorale di una parrocchia. Una scelta che ha fatto notizia, ma che non è stata compresa spesso nel suo senso profondo. Non si tratta solo di un “rimpiazzo” dovuto alla crisi dei sacerdoti o di un maggiore spazio “concesso” alle donne. Come sempre, lo Spirito ha molta più fantasia di quel che si creda e quando lo si ascolta può tramutare una crisi in una positiva novità ecclesiale.

a cura di Gilberto Borghi

 Lei+lui=parroco

L’antica novità della chiesa comunione

 Ad inizio settembre mons. Lambiasi, vescovo di Rimini e Montefeltro, ha nominato il diacono Davide Carroli e la moglie Cinzia Bertuccioli

quali “referenti pastorali” della parrocchia dei Santi Biagio ed Erasmo di Misano Monte. Collaboreranno, quindi, con due sacerdoti nell’animazione dell’unità pastorale che unisce le parrocchie di Misano Adriatico, Misano Monte, Scacciano e Villaggio Argentina.
Non si tratta di una nomina a vice parroco o ad amministratore temporaneo della parrocchia, ma di un ruolo di «partecipazione nell’esercizio della cura pastorale di una parrocchia», come recita il canone 517 del codice di diritto canonico. «Non siamo i vice parroci, - spiega Cinzia - non faremo i supplenti: siamo una famiglia diaconale al servizio di una parrocchia con la specifica della carità, dell’essere vicino ai poveri, della liturgia e del servizio all’altare. Il prete è altro».

A fianco delle parrocchie: le diaconie

Al contrario di quanto titolato dai giornali, non è la prima volta che un laico assume questo ruolo. Sia in Italia, sia nel resto del mondo. Abbiamo anche già ospitato, sempre in questa rubrica, il racconto dell’esperienza di uno di loro, Roberto Gordini, della diocesi di Faenza-Modigliana (cfr. MC 02/2020, pp. 12-14). In Amazzonia la stragrande maggioranza delle parrocchie è già così. E già da tempo queste persone possono svolgere tutte le funzione pastorali del sacerdote, descritte dal canone 530, tranne la celebrazione dell’eucarestia e la confessione.
E quando, nel 2018 a Roma, il cardinale vicario Angelo De Donatis ha affidato la parrocchia di San Stanislao, nella zona di Cinecittà, alla cura di un diacono sposato, Andrea Sartori, ha così spiegato il senso di tale scelta: «Mi sembra di intravvedere in quella unità pastorale una speciale vocazione che è quella di diventare una diaconia: una comunità cristiana che, in sinergia con le parrocchie del territorio, diventa uno spazio di accoglienza e di accompagnamento dei poveri e delle persone ferite e sole, in vista del loro sviluppo umano integrale. L’idea che c’è dietro è quella di recuperare una prassi antica della Chiesa, che prevedeva il sorgere di diaconie a fianco alle parrocchie, per il servizio dei poveri del territorio. A Roma ne è documentata l’esistenza fin dal VII secolo».
Nella diocesi di Rimini questa motivazione mi sembra sia ancora più evidente. Primo perché è una coppia, e non un singolo, ad essere stata chiamata a questo ministero. Secondo per la storia di questa coppia. Lui 58 anni, da dieci diacono permanente, lei 51 anni, psicoterapeuta, sposati da 27, impegnati nella Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi, di cui gestiscono una casa famiglia. «Abbiamo sette figli», dice Davide, «tre naturali e gli altri in affidamento. In questi anni abbiamo accolto tanti ragazzi con diverse patologie, oppure che scontavano una pena alternativa, ragazzi di strada, persone che avevano bisogno. Abbiamo dato una famiglia a chi non ce l’aveva». Esperti perciò, come coppia e come famiglia, nella relazione con i poveri e i bisognosi.

 Il rischio di non esistere più

La scelta del vescovo perciò ha un valore molto maggiore che la semplice supplenza. «Dimostra», aggiunge Cinzia, «la grande importanza della famiglia, come la nostra che è anche più allargata e ricca. La Chiesa in questo modo ha mostrato il valore sia della casa che della famiglia». «Noi cerchiamo di stare vicino alla gente», aggiunge Davide, «di rispondere alle loro domande, di ascoltare molto, anche se in realtà siamo in questa parrocchia da tanto tempo. Questa nomina si inserisce in una presenza già radicata: ci occupiamo della pastorale delle famiglie, della preparazione al matrimonio delle giovani coppie, della catechesi battesimale per preparare al battesimo i genitori, stiamo vicini alle famiglie che subiscono un lutto».
Diventa perciò molto interessante questo esperimento perché cerca di ridare valore e spessore a tutta quella serie di relazioni che creano di fatto il vero tessuto di una comunità, che nel caso di una parrocchia non può non avere il timbro della carità concreta e fattiva. Un segnale nuovo, che, al contrario della continua preoccupazione di molti vescovi di garantire a tutte le parrocchie servizi sacramentali e religiosi, investe nella ricostruzione del tessuto umano della parrocchia, affinché essa possa reggersi e crescere non solo sacramentalmente, ma anche umanamente. A ben guardare, oggi spesso la parrocchia sta soffrendo, non tanto perché manca il prete che dice messa (in Italia questo non è ancora un problema), ma perché manca una vera vita comunitaria dove la realtà, i bisogni e le difficoltà di tutti possono venire presi in carico da una comunità concreta che incarna così la propria fede. La parrocchia sta soffrendo perché la comunità rischia di non esistere più e la vita sacramentale è spesso vissuta individualmente, come fatto talmente privato e a sé stante, che poi non riesce più ad incidere sulla vita reale delle persone.

 Una coppia è di più

Ecco allora il valore aggiunto, quello di scegliere una coppia (e con essa una famiglia) come referente pastorale. Se si vuole uscire dalle strettoie di una fede soggettivista, dove ognuno si coltiva il proprio rapporto con Dio come vuole, la strada è proprio quella di mostrare che la fede stessa richiede comunione, perché Dio è comunione di persone e la Chiesa è la sua immagine.
Chi meglio di una intera famiglia può dare corpo a questa verità? Che non si limita a far partire il senso di comunità dal sacramento, ma dalla relazione quotidiana in carne ed ossa con chi vive quello stesso spazio fisico. La fede oggi ha assoluto bisogno di concretezza, la dimensione sacramentale non basta più a garantire la vita comunitaria effettiva. E la concretezza non può che partire da una comunità, anche se piccola come una famiglia, per costruire una comunità più larga. Quante volte ci siamo detti che la famiglia è una chiesa domestica? Quale meraviglia allora se proprio una famiglia tenta di dare corpo all’esperienza di una comunità un po’ più vasta come una parrocchia?
Sbaglieremmo perciò a leggere questa scelta del vescovo come dovuta solo alla crisi vocazionale o solo come segnale di maggiore spazio “pastorale” alle donne. «All’altare ci sarà sempre mio marito«, dice Cinzia, «al momento a me la questione diaconesse non riguarda perché a me viene chiesto di essere moglie. È la coppia al servizio della parrocchia. Faremo ciò che abbiamo fatto tutte le domeniche. Mio marito curerà il servizio all’altare, e io sarò tra i fedeli con i nostri figli. Garantiamo che venga un prete a celebrare messa ogni domenica e Davide serve all’altare col sacerdote. Se una volta non troveremo il sacerdote, Davide terrà la Liturgia della Parola».