Fine anno, tempo di bilanci. In missione propone qualche riflessione sul passato (e magari sul futuro) del campo di lavoro e del mercatino del riuso, approfittando delle parole di Babu, un giovane gambiano rifugiato in Italia, incontrato a Imola dai campisti nell’agosto scorso.

a cura di Saverio Orselli

 Babu che viene da lontano

Memorie di chi va per campi e chi per mare

 Cinquanta sfumature di ruggine

Mentre le giornate si fanno sempre più corte, rapido si avvicina il passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo,

che per i “campisti” più attempati - come me -ricorda un anniversario di quelli che contano: il 21 agosto 1972 (mezzo secolo fa!) iniziava a Rimini l’esperienza del campo di lavoro missionario.
In mezzo secolo sono stati tanti i cambiamenti e le evoluzioni registrati, sia all’interno del campo che all’esterno. Al di là dell’itineranza dei primi vent’anni da un convento all’altro (in grado di ospitare un’orda di ragazzi), le prime raccolte porta a porta di carta, stracci e ferri vecchi, precedute e accompagnate da volantini che raccontavano di missioni e missionari, erano spesso caratterizzate da rifiuti verbali, a volte anche molto coloriti, nei confronti sia degli “ingenui” volontari che dei soggetti a cui si cercava di portare aiuto. Oggi la gente porta spontaneamente (e semmai si lamenta degli orari ridotti per la possibile consegna) gli oggetti al campo e, se non può farlo direttamente e ha bisogno del camion del mercatino, c’è chi arriva a innervosirsi se non si corre subito a prendere il materiale e, soprattutto, se non lo si porta via tutto.
Non meno importante è stata la rivoluzione avviata una trentina d’anni fa, quando, oltre all’abbandono del nomadismo conventuale a cui fu preferita la stanzialità nella grande sede di Imola, iniziò la vendita degli oggetti ancora utilizzabili nel mercatino, trasformando il campo, fino ad allora spazio limitato ai soli volontari, in un luogo di richiamo di migliaia di persone, più o meno in difficoltà, più o meno curiose, attratte dalla grande quantità di materiali vari, ancora in ottimo stato e a costi irrisori.
Lo stesso mondo dei volontari s’è trasformato, inizialmente limitato ai soli giovani e progressivamente invecchiato come la società. Un vento di rinnovamento capace di soffiare anche nei momenti di “formazione”, in cui oggi è possibile vedere insieme la contemporanea partecipazione di giovani, adulti e anziani, cosa non scontata in passato: per troppo tempo, gli adulti si sono creduti “già formati”…
Non poteva certo conoscere queste dinamiche Babu, il giovane gambiano accolto, nei primi giorni del campo di quest’anno, dal variegato gruppo di volontari in attento ascolto della sua storia di migrante, nel 2017 raccolto in mezzo al Mediterraneo da una nave di una Ong tedesca e trasportato in salvo a Catania, preso in carico dallo Stato e quindi portato in Romagna, a Cesena, ospite di una famiglia della Comunità Papa Giovanni XXIII, presente all’incontro quasi con discrezione, anche se i due sposi avrebbero potuto tenere da soli una formazione coi fiocchi, visto che in 26 anni di matrimonio hanno accolto e ospitato 52 persone!

 A casa loro

«Quando sono arrivato in Italia mi sono trovato in una realtà completamente diversa da quella da cui ero partito ed è stato importante trovare qualcuno pronto ad aiutarmi», ha esordito sorridente Babu, «Il loro aiuto è stato fondamentale per capire la situazione, per imparare la lingua e per integrarmi, anche perché sono arrivato in modo irregolare, in un barcone, come tanti altri ragazzi africani, attraversando con vari mezzi diversi Stati africani. Incontri come questo mi fanno molto piacere, perché dentro di me sento la “missione” di togliere le barriere che spesso ci sono tra i ragazzi rifugiati, “gli stranieri”, e gli italiani. Una tensione, quella tra i rifugiati e gli italiani, che ho sentito subito quando sono arrivato in Italia. Ho sentito parlare di razzismo, di ignoranza, ma, secondo me, tra i rifugiati e gli italiani quello che domina è la paura, dovuta soprattutto alla non conoscenza reciproca. È ovvio che, quando uno si presenta a casa tua, fai fatica ad accoglierlo se non lo conosci, e così è importante togliere la paura che impedisce l’accoglienza. Un modo per far superare la paura è proprio non avere timore di raccontare la propria storia e non rinchiudersi in se stessi, ma essere pronti a integrarsi in una nuova realtà».
«Io ho avuto fortuna, perché non ho mai subito maltrattamenti o discriminazioni, ma ho visto tante persone in quelle condizioni e, come rifugiato, soffro molto nel vedere tanti miei “fratelli”, immigrati come me, subire questi maltrattamenti. Ho avuto anche la fortuna di poter vivere in una famiglia che mi ha accolto e non dover aspettare in un campo profughi, perché per integrarsi non basta portare i ragazzi -magari che parlano tutti la stessa lingua e vengono da posti simili tra loro -in una struttura di accoglienza dove ci sono anche i corsi, ma dove non c’è nessuno che ti mostri come si vive, quali sono i problemi da affrontare ogni giorno, come li si può superare insieme come avviene in una famiglia. In una struttura fai fatica a integrarti».
«I motivi per cui si lascia il proprio Paese possono essere tanti e ogni Paese in Africa è diverso dall’altro. Quando sono partito, nel mio non c’era la guerra ma una dittatura che limitava la libertà e così, anche se ero al terzo anno di Medicina, ho deciso di partire, affrontando un viaggio rischioso».

 Per l’alto mare aperto

Grande il silenzio che ha accompagnato il racconto del viaggio del giovane, partito da un piccolo Paese africano - il Gambia è esteso e popolato quanto metà dell’Emilia-Romagna -attraverso il Senegal, il Mali, il Niger, l’Algeria (a piedi nel gelo notturno del deserto) fino alla Libia, dove poteva contare sulla presenza d’uno zio e su una situazione più tranquilla rispetto a oggi, anche se per breve tempo, come dimostra il rapimento dello zio avvenuto poco dopo il suo arrivo.
Ai volontari, colpiti dal racconto, non è sfuggito un particolare importante, sottolineato da una frase di Babu: «Tanti fanno presto a dire “Africa”, ma ogni Paese è diverso, con una propria cultura, una propria lingua, tradizioni diverse. Durante il viaggio ho fatto molta fatica, perché passando da un Paese all’altro incontravo persone molto diverse da me nei modi di fare ed è stato difficile. Anche il percorso è stato molto duro; passavo da un mezzo all’altro e sono stato anche rapito, ma faceva parte del rischio. Purtroppo ho visto situazioni angoscianti e pericolose, soprattutto in Libia, da cui io mi sono salvato perché conoscevo un po’ l’arabo. Lì ho capito quanto è importante conoscere la lingua del posto dove vai, perché ti consente di evitare tanti guai. Magari questo non vale per l’Italia, perché se non conosci la lingua puoi sempre trovare qualcuno che ti fa da interprete, ma in Libia è impossibile». Babu è riuscito a superare le diverse traversie grazie a un’arma fondamentale, la preparazione culturale: conoscere a sufficienza le lingue dei paesi attraversati, gli ha consentito di capire i dialoghi delle persone incontrate oltre che dei trafficanti di esseri umani e difendersi. Tanti non hanno la sua stessa fortuna e neppure incontrano persone accoglienti come è accaduto a lui.
Dopo cinquant’anni di Campi e quasi trenta di mercatini, non si può che dare ragione a Babu, quando dice che «Si fa presto a dire Africa, ma ogni Paese è diverso…». Un bel “motto” culturale per i prossimi cinquanta.