Lo slogan delle recenti Olimpiadi di Tokyo è stato United by emotion. Un’intuizione felice: l’intenzione degli organizzatori dell’evento era di sottolineare che, nonostante gli ostacoli, sono le emozioni che ci uniscono, creando un legame invisibile ma impossibile da distruggere persino per una pandemia globale. Basti pensare a ciò che succede normalmente quando proviamo un’emozione forte, come quella causata da uno spavento o dall’apparire improvviso della persona che amiamo: il respiro si fa affannoso, il cuore batte più veloce, le mani sudano, e ci capita persino di gridare, piangere o ridere…

a cura di Michele Papi

 Canti, o Pixar, l’ira funesta?

L’emozione comanda e l’uomo esegue, oppure...

 di Brunetto Salvarani
teologo, saggista, docente di dialogo interreligioso alla Facoltà Teologica dell’Emilia-Romagna

 La scelta nipponica mi ha colpito, facendomi tornare alla mente un film di animazione di qualche anno fa che, nel suo genere, ha fatto epoca: Inside Out,

uscito nel 2015 per la Pixar e diretto da Pete Docter e Ronnie del Carmen, subito acclamato come un piccolo capolavoro da critica e pubblico. L’eroina della pellicola è Riley, una ragazzina dodicenne del Minnesota, resa infelice dal trasferimento della famiglia a San Francisco. Tuttavia, la ragione profonda del suo malessere è un’altra, e diventa presto chiara agli occhi di noi spettatori quando veniamo a contatto con le sue emozioni, ritratte come personaggi dei cartoni animati all’interno del cervello di Riley, in perenne conflitto fra loro. Un omino incupito e rosso incarna la Rabbia, mentre una ragazza blu e dolente rappresenta la Tristezza; ed è una ragazza gialla molto più alta e ridente a simboleggiare la Gioia.

 L’impero delle emozioni

Nel film Gioia si scontra di regola con le altre emozioni (Tristezza, Rabbia, Paura e Disgusto). Le quali guardano il mondo attraverso gli occhi di Riley su un grande schermo di computer, e tutto ciò che accade nella vita quotidiana della giovane protagonista provoca un incidente biochimico. Così, i personaggi-emozioni si mettono a premere dei veri e propri pulsanti nella sua testa, allo scopo di controllarne azioni e pensieri. A forza di emozioni contrastanti, il benessere mentale e il comportamento di Riley sono gravemente segnati. Ecco perché Gioia e Tristezza intraprendono una ricerca nel suo cervello, per risolvere questo malfunzionamento biochimico. Eppure, tra i tanti processi biochimici abilmente animati, non c'è traccia di un’anima, e vabbè, ma neppure del libero arbitrio o di un sé autentico. Secondo Inside Out, questi piccoli personaggi emotivi ci regolano da capo a piedi.
Le emozioni di Riley concludono che Joy non caratterizza bene la sua identità, dando per scontato che siano l’interazione tra tutti i meccanismi biochimici e le emozioni che la definiscono. Alla fine, le emozioni le assicurano un’elaborazione biochimica regolare: cosa che stabilizza il benessere emotivo della ragazza e, naturalmente, stiamo pur sempre guardando un lavoro della Pixar, conducono a un immancabile lieto fine.
E però. È lecito domandarsi: si tratta di un’indicazione diretta dell’assenza di libero arbitrio e di identità autentica? Noi umani siamo, proprio come Riley, null’altro che un preciso prodotto matematico di interazioni tra processi biochimici che avvengono nel nostro cervello? Il nostro comportamento è controllato dalle nostre emozioni che premono i pulsanti di turno? Da Aristotele e Buddha fino a Freud e ai suoi epigoni, l’affermazione secondo cui le emozioni sarebbero riflesse e cablate nel nostro cervello è stata regolarmente sostenuta per secoli. Peraltro, tale affermazione oggi non regge più. La visione classica afferma che stimoli specifici attivano i neuroni, e che tutti i neuroni sono collegati a una particolare emozione.

 Più di quanto pensiamo

Ricerche recenti, in realtà, ci mostrano che non esistono i neuroni della rabbia o i neuroni della gioia. Anche se le sostanze biochimiche, come la dopamina e la serotonina, sono ancora legate alle emozioni e al comportamento, non determinano le nostre azioni. Inoltre, gli esperimenti hanno dimostrato che non esistono regioni cerebrali specifiche responsabili delle sole emozioni.
Secondo la maggior parte delle teorie moderne, le emozioni sono un processo multicomponenziale, cioè articolato in più componenti e con un decorso temporale che evolve. Sono, perciò, costrutti complessi, creazioni dell’interazione tra cultura, eredità familiari, reti neurali, sensazioni corporee ed esperienze passate. Ma soprattutto, non dimentichiamolo mai, noi abbiamo più controllo sulle nostre emozioni di quanto pensiamo.
La cultura gioca un ruolo rilevante nel modo in cui percepiamo e sperimentiamo le emozioni. L’affetto emotivo e la reazione corporea che etichettiamo come tale possono avere un significato diverso da quello che conosciamo, in altre culture. Perché quelle che chiamiamo emozioni non sono concetti universali, ma si ricollegano alla nostra storia individuale, al nostro passato, a come vediamo il nostro futuro. Un po’ come ci ricorda il papa nell’esortazione dedicata al Sinodo sui giovani: «La gioventù non è un oggetto che può essere analizzato in termini astratti. In realtà, la gioventù non esiste, esistono i giovani con le loro vite concrete. Nel mondo di oggi, pieno di progressi, tante di queste vite sono esposte alla sofferenza e alla manipolazione» (Christus vivit, n. 71).

 L’utilità della risposta da cercare

Quando parliamo di disagio giovanile, parliamo della proiezione del nostro disagio su quelli venuti dopo di noi. Noi adulti per primi siamo coinvolti in un’idolatria del denaro, in un deficit di libertà e di giustizia. Come tornare a evidenziare le cose fondamentali? E tra le cose fondamentali dobbiamo considerare anche il senso della trascendenza? In altre parole: è importante un orizzonte di religiosità anche per la maturazione di una responsabilità nei confronti della società? O questo orizzonte si può sostituire con altri orizzonti? Ovviamente, per quanto mi riguarda non dispongo di risposte sicure da fornire al riguardo, ma ho appreso - soprattutto grazie alla frequentazione della tradizione ebraica - che la cosa principale è appunto imparare a porsi buone domande, e mantenersi aperti a cercare risposte sensate. In sintesi, tornando a Inside Out: le emozioni sono preziose, e dobbiamo certo farci i conti («Capire tu non puoi… / Tu chiamale, se vuoi, / emozioni…», cantava qualche decennio fa Lucio Battisti, anticipando una stagione di ritorno al privato). Ma non sono tutto, e non si può ridurre tutto a esse. Zygmunt Bauman sostiene che sia il consumismo a volerci in primo luogo raccoglitori di emozioni e sensazioni, per non farci ragionare sull’insensatezza radicale del sistema malato nel quale siamo immersi. Teniamone conto, educatori, insegnanti, genitori, allenatori, quando ci rapportiamo a quanti oggi stanno crescendo, pagando purtroppo prezzi altissimi e ancora tutti da decifrare, nel tempo incerto della pandemia: e hanno bisogno di volta in volta di essere ascoltati, di silenzi, di conforto, di pazienza. Esercizio complesso e senz’altro faticoso, ma necessario. Che dobbiamo a tutte le giustamente spaesate Riley che ci troviamo a incrociare ogni giorno…