«Io sono Colui che sarò - che vorrò essere»: è una delle interpretazioni del Nome rivelato dal Dio biblico a Mosè. Ci piace pensare che l’uomo sia stato creato a immagine di questo Dio, che si definisce per il suo futuro. Il carcere è disumanizzante perché inchioda una persona al suo passato. È nell’interesse del singolo e dell’intera società ripensarlo radicalmente perché diventi l’opportunità di dar vita a un futuro buono. «Non c’è niente di sbagliato in un perdono / Che se non sbaglio non capisco io chi sono» (Fiorella Mannoia).

a cura della Redazione di “Ne vale la pena” di Bologna

 Io sono colui che sarò

L’oggi sorge se il domani c’è

 DIETRO LE SBARRE

Incontri imprevisti

Da qualche anno guardo il mondo da un’angolatura diversa, distaccata, quasi mi fosse estraneo.

Prima ne ero completamente partecipe sotto tutti gli aspetti. Me ne sentivo persino protagonista! In grado di incidere sulle sorti umane e progressive. Conducevo una vita piena di incontri, diviso fra cultura, politica e società; tra scrittori, artisti, musicisti… e mi dicevo: cavolo, eri solo un ragazzo alla periferia dell’impero e guardati ora, manca solo che ti si incoroni… quanta presunzione, quanta convinzione, e quanta finzione…  già, perché intimamente sentivo (sapevo?) che qualcosa non andava, che non era quello che volevo, che cercavo: prigioniero della mia stessa costruzione. Ma, poi, era solo mia?
E la corona alla fine l’ho avuta, ma non d’alloro: di ferro! Lo stesso che mi chiude l’orizzonte. Sia chiaro: non me ne lamento. È il portato delle mie azioni. Però, da quel giorno d’ottobre, anno dopo anno, sembrerà un paradosso, mi sono sentito più vero, libero di essere solo ciò che sono. Quanti, stretti nella norma sociale della consuetudine, se lo possono permettere?
E di incontri ne ho fatti di nuovi, alcuni preziosi, che si sono aggiunti a quelli antichi, dispersi nel tempo dell’esistenza, ritrovati e non meno preziosi. Amici la cui verità è nel loro esserci, comunque. Così, quanti Moosbrugger ho incontrato (e io?) in questo microcosmo labirintico che chiamiamo carcere e in cui non è facile districarsi, divisi come siamo da muri di diffidenza, prudenza, violenza.
Eppure, per chi non si ferma all’intonaco di un universo di vite disgregate, lo stupore non manca: ho ascoltato racconti colmi di dolore, di speranze, di rabbia, di avventure, di disastri famigliari, economici. Di follie. Vite “sprecate” (quanta banalità categorizzante) che vivono: alcune ricche di umanità anche nelle peggiori delle “devianze sociali”; e ho provato un senso strano di pudore mentre la mente riandava alla mia vita precedente. E ho imparato a non giudicare. Meglio, ci provo. Anche coloro che hanno rinunciato, che credono che la vita sia persa per sempre nella solitudine di un futuro che è già presente.
Ascolto. Parola impegnativa. Azione che spesso si teme perché, spesso, coinvolgente. Troppo. Meglio sentire. Meglio ancora se da lontano. Un brusio di sottofondo. Tutti parlano, pochi ascoltano, qualcuno capisce. Forse.

Sergio Ucciero

 L’uomo che non si vede…

Il carcere, da quando esiste, e soprattutto da quando è diventato il principale strumento di esecuzione della pena, è un sistema fallimentare, nonostante i buoni intenti riformatori di tanti legislatori. Foucault ha però a questo proposito rilevato che forse dietro l’apparente fallimento si cela in effetti un grande successo per il controllo della società, giacché la prigione serve alla produzione di delinquenza tanto quanto la produzione di delinquenza serve a legittimare il sistema delle pene e, di conseguenza, di controllo sociale.
L’istituzione carceraria spersonalizza, toglie l’identità. L’afflizione per la condizione in cui si vive e per la privazione dei diritti fondamentali è assolutamente prevalente rispetto ai nobili intenti costituzionali; non si tratta di opinioni ma di evidenze, viste le ripetute condanne che lo stato italiano, comunque in buona compagnia, ha ricevuto per la disumanità del trattamento penitenziario.
Le evidenze della drammatica situazione delle carceri in Italia sono i suicidi, gli atti di autolesionismo, i ferimenti, le colluttazioni, gli atti di violenza di cui a volte parlano anche i media. A chi ha occhi per vedere e orecchi per intendere nessuna prova è necessaria perché è tutto evidente, se solo ci si addentra nella realtà detentiva. Ma il nostro è uno dei tanti mondi che nessuno vuole vedere o ascoltare, come se gli uomini e le donne che lo abitano non fossero degni di appartenere alla famiglia umana.

Fabrizio Pomes

 La vita in carcere è una malattia

Il disagio, avvertito come malessere e interpretato dal medico come malattia, può diventare malattia “vera”. In prigione operano meccanismi destinati a produrre “corpi docili” e “condotte normalizzate”, si cerca di controllare le menti, portando all’“inebetimento da carcere”. Si toglie ai singoli la potestà sul corpo, cercando di ottimizzare gli esiti della reclusione. Ci si preoccupa solo di salvare la vita dal suicidio, ma quale vita? Il disagio si avverte fin dall’entrata in carcere: subito si manifesta la perdita dei riferimenti del tempo e dello spazio e che la “realtà” non ti appartiene più. Il “nuovo arrivato” è segnato anche dalla perquisizione, questa specie di iniziazione, non sadica né feroce, ma ottusa, è il primo segno e il corpo reagisce avvertendo la perdita della propria autonomia e del controllo su di sé.
Altre disfunzioni sensoriali si manifestano incorporando il nuovo linguaggio a cui il neodetenuto deve abituarsi: spesso si avverte la sensazione che la vista sia calata, a conferma dell’intenzionalità della nostra percezione visiva che, per vedere, ha bisogno di un corpo che guarda e di qualcosa da guardare. Molti denunciano una progressiva modificazione dell’olfatto, così come dell’udito, del tatto e del gusto. Tutti i sensi sono deteriorati dalla permanenza in carcere e ognuno di questi deterioramenti può trovare ragioni oggettive nelle condizioni di carcerazione anche se gli studi recenti dimostrano che esse non sono sufficienti a giustificarli.
Le finestre del carcere sono piccole, munite di sbarre arretrate rispetto alla parete. Così la luce filtra poco e le persone vivono sotto la luce artificiale che è mal distribuita e mal posizionata come anche la TV che spesso è sempre accesa. Specialisti hanno messo in risalto che il deterioramento visivo è troppo veloce per essere addebitato a queste cause.
Per quello che riguarda l’udito, la percezione sembra diversa: non si sente meno, anzi la sensibilità è aumentata. È molto interessante che l’acuirsi dell’udito si contrapponga all’abbassamento della vista, quasi servisse un modo per orientarsi e riconoscere il pericolo. Molti usano tappi auricolari per attenuare i rumori in modo da riuscire a dormire più tranquilli.
Il carcere è anche odore, odore pesante. Qualcuno dice che «il naso non funziona più, l’odore della galera è sempre lo stesso!». Questa soppressione della capacità di localizzare gli odori avviene nei primi 4-6 mesi di incarcerazione, ma dopo si sviluppa ancora in modo diverso. Forse, abituati a questo odore si diventa più sensibili… mi è capitato di sentire l’odore di una birra a metri di distanza, l’odore dell’infermiera, il dopobarba degli agenti, di capire, entrando in una stanza, se prima vi era un uomo o una donna.
Persino la percezione del tatto cambia, a causa anche della mancanza di contatto, del poco lavoro: ad alcuni il palmo della mano diventa meno sensibile, e non sentono più quello che toccano. Per contro esiste un fenomeno non compreso dagli agenti e dal personale sanitario, e cioè quello dell’iperestesia, che consiste in una acuta sensibilità cutanea, che porta le persone a reagire anche eccessivamente al semplice sfioramento di un oggetto o di una persona. Altri sintomi sono le alterazioni della pelle, come foruncoli, acne, psoriasi, resistenti ai comuni antibiotici e cortisone. La pelle dell’uomo può essere vista come uno schermo, sul quale viene proiettata la storia della vita, oppure considerata uno specchio che riflette gli stati d’animo, le paure, l’emozione. La vita ristretta amplifica tutto, nel bene e nel male, e forse è di per sé una vera malattia.

Martucci