Come fragile fango che pulsa

Intervista a Stefano Nava, architetto e illustratore

 a cura di Fabrizio Zaccarini

 Stefano Nava è architetto, dipinge, scrive e illustra libri. Si presenta come uno che cerca percorsi possibili.

Si è divincolato dal dilemma tra pittura e illustrazione rispondendosi: «perché limitarsi ad un linguaggio solo? Faccio quello che ho voglia di fare e basta!». Sposato con Caterina, ha due bambini, Francesco e Filippo. Bergamasco di origine vive vicino a Scandiano in una casa semplice e accogliente. Nel retro, un luogo magico, una ex-stalla che ha fatto splendere di bellezza. È qui che ci incontriamo.

 Il tuo libro dedicato a san Francesco si intitola “Un uomo”, non “Un santo” o “Un cristiano”. Perché un titolo così minimalista?
Io credo che Francesco sia tanto vicino a noi. La sua santità, forse quella di ogni santo, ma io in lui soprattutto lo vedo, consiste proprio nell’arrivare a capire chi sei come uomo. Credo davvero che lui abbia realizzato, non so se posso dire tutto, ma certamente tanto, dell’umano che c’era in lui. Non a caso il nome di Francesco compare solo nell’ultima frase del libro. «Tu abbraccio calmo, io finalmente Francesco». Francesco ha davvero ritrovato la sua identità grazie al percorso di tutta una sua vita. Lì, finalmente, Francesco è sé stesso. 

Il tuo ultimo libro si intitola “Fango”, che facilmente si potrebbe associare a sporco, a schifo. Per te invece…
Il fango è oggettivamente un elemento composto, è terra ed acqua. E allora il fango mi è sembrato potesse fare da collegamento tra le parti del libro: il soffio (alcune tematiche importanti, partendo da Dio, che soffia sul fango modellato per creare l’uomo), l’acqua (diverse figure evangeliche), la terra (le relazioni decisive della mia vita, perché infine la Parola deve diventare carne). Trovo che sia molto bello sporcarsi le mani con l’argilla, con il fango. Noi del resto siamo così, infangati, fragili. E forse è proprio qui, in questa nostra imperfezione, che sta la nostra bellezza. Siamo stati creati nel sesto giorno, non nella perfezione del settimo.

 Sulla copertina di “Fango” c’è una ciotola che, appena diversa, ritrovo nel libro su san Francesco e anche qui, in questo luogo, come supporto materiale alla luce.
Sì, amo molto le ciotole, mi rimandano ad una tematica importante in Francesco, quella della restituzione. In “Fango” la ciotola è nel capitolo delle mie origini. Nel senso che se hai ricevuto, poi sei chiamato a donare. Nella ciotola non ci stanno troppe cose. Non puoi prendere e tenere tutto, anzi puoi prendere e tenere poco. E questa per noi oggi che ci riempiamo di cose, di informazioni, di impegni, è una provocazione veramente feconda. Intendiamoci, anch’io tendo a riempirmi, a voler controllare tutto, ma, almeno nella mia ambizione, vorrei imparare a fare una cosa per volta, lentamente, senza ansie da prestazione. Mi piace andare qua vicino, da un contadino anziano, guardare come lavora, come sta con le mucche, anche senza far nulla, a volte. Ecco, io nella mia infanzia, dalla mia famiglia, dalla gente del mio paese, ho ricevuto tanto e non posso permettermi di non restituire questa ricchezza. Bisogna che la ciotola si svuoti per essere riempita ancora. 

Tra le figure evangeliche che hai inserito nella seconda parte di “Fango” quali preferisci?
Direi la donna cananea. Per molto tempo mi sono sforzato, di fronte ai brani difficili della Parola, di far tornare i conti secondo i miei schemi.  Ora non cerco più di giustificare quello che non capisco, mi lascio interrogare e spiazzare dalla Parola. Ad esempio: davvero Gesù non vuole esaudire questa povera donna solo perché non è ebrea? Lascio la domanda aperta e così mi piace pensare che Gesù abbia imparato da una donna straniera a vedere in modo più aperto la sua missione. Lei ha un desiderio altissimo, perciò l’ho disegnata sui trampoli e anche Gesù sui trampoli perché si è arreso all’altezza del suo desiderio.
Poi Maria, ovviamente. Per lei ho voluto sottolineare l’essenzialità, per questo il primo piano e l’assenza di particolari intorno, solo il volto sereno, gioioso, e imperfetto di una ragazza. L’immagine di Giuseppe è molto diversa. Per Maria ho cercato un realismo radicale, per lui, uomo dei sogni, ho sottolineato la dimensione onirica. Lo volevo pronto a guardare al cielo, così gli ho disegnato quelle due grandi ali in costruzione, forse in riparazione, perché del sogno devi quotidianamente prenderti cura. Allo stesso tempo Giuseppe lo vedo ben piantato a terra, nelle cose di ogni giorno. Così gli ho disegnato due grandi zoccoli e tutto intorno gli arnesi del suo mestiere. In un mondo di fabbricanti di armi, lui è un fabbricante di ali, ma ben ancorato a terra. 

 Trovo un filo rosso tra l’immagine di tua moglie in dolce attesa, e l’immagine di tuo padre...
Hanno un atteggiamento meditativo che mi piace molto vedere nelle persone in genere, in particolare in mia moglie. Caterina era in attesa di Francesco, il primo figlio che abbiamo atteso a lungo. E non è stato facile accettare i tempi di un evento che solo in parte dipendeva da noi. Mio padre l’ho ritratto così, perché era un uomo semplice, silenzioso e tanto rispettoso. Dipingeva, ma non ha fatto nulla perché io andassi nella stessa direzione, anche se credo che in realtà ci tenesse tantissimo. L’ho voluto nello stesso atteggiamento di Mosè al monte Nebo. Ho voluto ritrarlo, non nel nostro paese d’origine, tra i monti di Bergamo, ma qui in Emilia, dove mi sono trasferito molti anni dopo la sua morte. Guarda da destra a sinistra, in genere si fa il contrario, deciso a rispettare la mia “terra promessa”. Uno sguardo dal futuro, da un Oltre sconosciuto, verso la mia vita, per vedere con gioia e rispetto il compiersi del sogno di suo figlio.

 Tu, Stefano, lavori a Reggio Emilia come operatore sanitario nell’infermeria dei frati cappuccini. Che rapporto vedi tra il tuo lavoro e le tue creazioni artistiche?
Sono due mondi lontani, ma io cerco di tenerli insieme, per evitare che dipingere sia solo un po’ di poesia senza terra, e perciò senza vita, che non servirebbe a niente. Io senza questo lavoro, dedicandomi tutto all’arte, correrei il rischio di rifugiarmi troppo nella dimensione eterea del soffio. Non è così semplice accettare la propria fragilità, essere nelle mani di Dio, stando, nella concretezza, nelle mani degli uomini, per essere curati, lavati, per tutto. È l’ultimo passo questo, quello in cui la tua fragilità esige di fidarti dell’altro. È prezioso per me lavorare al servizio di queste persone. 

 Lascio a te la conclusione, Stefano.
Desidero spendere una parola per il luogo in cui siamo, che io e Caterina chiamiamo “Grembo di terra”. Questa è stata la mia opera durante il lockdown e vorremmo che fosse uno spazio aperto a incontri e relazioni belle. E credo che sia questa la cosa più importante e la più difficile. Far entrare relazioni belle, qui, ma, soprattutto, nella nostra vita. Soprattutto dopo questi due anni che ci hanno chiesto di limitarci alle relazioni più intime e rivedere come possiamo relazionarci in autenticità. Ecco è questa la cosa che mi interessa di più. Ed è anche per questo che mi son deciso a rendere itineranti le illustrazioni originali dei miei libri, per incontrare parrocchie, gruppi giovani, in modo che la ciotola si svuoti, restituisca quanto ha ricevuto nella forma del dono che annuncia il Regno di Dio in mezzo a noi.

 

Dell’Autore segnaliamo:
Fango
San Lorenzo, 2021, pp. 120