Apologia del corpo vissuto

La teoria Gender nasce in opposizione alla violenza maschile, ma non la sa curare

 di Giovanni Salonia
frate cappuccino, psicoterapeuta

 All’inizio ci sono le differenze. E Adamo ne ha paura. Di fronte al corpo di Eva, a quel corpo diverso dal suo, prima ha un’esplosione di stupore

(«Questa sì che ci voleva: è la soluzione che cercavo»), quindi si riprende il potere: «Da me sei stata fatta e sei come me», «carne della mia carne, ossa delle mie ossa» (Gen 2,23). E le dà un nome che ricorda che a lui appartiene: un nome che annulli la differenza. «Io sono Ish e tu Isha»»: io Uomo e tu Uoma. Riduce al minimo le differenze ed inaugura (o legittima) il pensiero unico: quello maschile punto di riferimento della realtà. La donna dovrà decidere se e come rapportarsi a questa entità che esiste prima (in senso metaforico) di lei. Adamo dimentica che Eva è, fondamentalmente, sua sorella. Dalle stesse mani provengono i due corpi. Dimentica che la priorità temporale del corpo di Adamo non è e non deve trasformarsi in priorità di valore. A rifletterci bene, nella Genesi si opera (e si insinua) un capovolgimento della condizione umana: l’uomo non viene dalla donna, ma la donna viene dall’uomo (Dacia Maraini).
È vero che la gravidanza deve l’inizio al maschio, ma è dal corpo della donna che nasce un maschio (e una femmina). All’inizio le differenze generano divisione. E dire che Jahvè aveva messo nei corpi l’attrazione proprio per evitare scissioni e separazioni! La nascita di Caino, inoltre, offre ancora un’occasione alla donna per negare le differenze, per far scomparire Adamo: «Da Dio/con Dio ho guadagnato un figlio» (Gen 4,1). Nella storia di Caino e Abele, Adamo è il grande assente (Gen 4,2-16): si assenta o viene messo da parte? Emerge una domanda: se fosse questa la radice più arcaica che trasforma il disagio della nascita del fratello in istinto fratricida?.

 Il potere violento del maschio

Da allora tutta la storia umana è riempita dalla paura delle differenze che trasforma, appunto, le differenze in lotta per la gerarchia del valore e del potere. E di tutte le differenze (culturali, politiche e religiose) la differenza dei corpi rimane radicale, decisiva, discriminante. La sopravvivenza della specie è l’obiettivo primario della condizione umana, ma il maschio si percepisce come colui che fa la storia, dimenticando che la sopravvivenza della specie è garantita dalla maternità. L’ordine patriarcale impone il pensiero unico, quello maschile, ed arriva a teorizzare una sorta di inferiorità del corpo femminile. Viene anche inventata “l’invidia del pene”, negando che l’invidia riguarda il potere che la cultura ha assegnato alla natura: si può affermare che è il “pene sociale” ad essere invidiato. I maschi si autoassegnano (complice la condizione di sottomissione della donna) il potere di dare il nome alle cose, di imporre la propria parola e zittire quella della donna.
L’ordine patriarcale crea il potere e la violenza del maschio. E con un processo di violenza implicita racconta che il potere maschile è scritto nei corpi e non è una costruzione sociale. Anche quando l’ordine patriarcale viene destrutturato, la violenza maschile permane. Sembra invincibile, talmente si è infiltrata fin nei nervi più occulti del vivere sociale. Nessuna lotta di donne, nessun cambiamento sociale sembra aver ridimensionato più di tanto il potere violento del maschio sulla donna.

 La teoria Gender

Da questa triste realtà emerge e si afferma la teoria Gender. Un progetto che vede nella negazione del valore degli organi sessuali la necessaria decostruzione del paradigma sociale maschilista. Perché il sex perda il suo potere è necessaria la costruzione sociale dell’identità di genere. È l’unico modo - sostengono le teoriche del Gender (Butler e altre) - per prendere consapevolezza che le differenze tra il femminile e il maschile sono culturali e non naturali. Questo imbroglio di definire naturali differenze create da una cultura maschilista va smascherato. Solo neutralizzando il valore delle sessualità biologiche è possibile costruire a livello psicosociale una identità di genere. La teoria Gender intende sconnettere le facili sovrapposizioni con cui si identificava come natura - e quindi intoccabile - ciò che invece apparteneva alla cultura. L’invito della teoria Gender è un ricominciare da capo: le differenze non derivano dal corpo ma sono costruzioni sociali.
È chiaro che anche se la teoria Gender ci offre ermeneutiche intriganti e certamente di crescita nella condizione umana, deve rispondere a delle domande significative che riguardano proprio il rapporto corpo-mente. Se le parole genuine nascono dal corpo, come è possibile non ascoltare il corpo? E se le neuroscienze dicono che il corpo impregna e decide la nostra percezione del mondo (Kandel, Keller), come possiamo pensare che l’identità sia una induzione data soltanto dalla cultura? E se ci fosse il rischio tipico delle teorie che nascono dalla patologia e non dalla fisiologia? Non sarebbe una novità! Il tanto rinomato “complesso di Edipo” si è rivelato un grave errore epistemologico che ha invaso (e invade) la cultura occidentale. In una famiglia in cui fluiscono sani i rapporti fra cogenitori nessun attaccamento “incestuoso” viene sviluppato: non è dal figlio che nascono desideri inappropriati ma è la relazione fra i genitori che crea sofferenze (e confusioni) relazionali. Il rischio, nella fattispecie, è che il vissuto maschile violento sia fisiologico e non ci si renda conto che in realtà è patologico. Che senso avrebbe costruire una teoria dalla patologia? Forse l’affermazione della De Beauvoir per cui “donna non si nasce ma si diviene” potrebbe essere riletta nel senso che esiste un essere maschio e femmina non visivo ma intimo di cui ognuno progressivamente deve prendere consapevolezza corporea.

 Una terza via

Possiamo quindi proporre all’interno di questa scissione tra sex e teoria Gender l’orizzonte decisivo del corpo vissuto (Merleau Ponty). In altre parole, possiamo ipotizzare che, se un maschio vive nell’intimo il vissuto del proprio corpo maschile, sentirà il sex dentro una percezione di forza tenera nei confronti del corpo femminile? E se fosse proprio la mancanza di consapevolezza, il non avere l’esperienza intima, vissuta del proprio sex a creare la violenza di genere? Credo che ogni nuova teoria - sottratta agli idola tribus, alla forza dell’ideologia e della moda - se ascoltata fino in fondo con rispetto e anche gratitudine, senza chiusure anticipate e senza adesioni ideologizzate, apre orizzonti nuovi inesplorati ma necessita di una rilettura attenta, aperta e positivamente critica.
Al di là della più o meno adesione alla teoria Gender dobbiamo coglierne la lezione antropologica. Il maschile e il femminile sono differenze e possono essere vissute come reciprocità se si matura una consapevolezza del proprio corpo che non confronta, ma che attinge l’intimo più intimo dei propri vissuti corporei dove le differenze non diventano potere ma solo apprendimento. Le differenze che ci segnano dall’inizio - nei corpi! - se vissute come apprendimento reciproco dalle diversità diventano ricchezza della condizione umana. Ascoltate in profondità, nel proprio corpo, le differenze si attraggono per creare una bellezza in più della condizione umana: la reciprocità dei corpi. Forse sarà solo collocandosi nel corpo vissuto maschile e femminile che si potranno sperimentare e imboccare le strade di una intima e luminosa reciprocità.
Non un figlio che sta male, ma una famiglia che ha bisogno di crescere e di accogliere i cambiamenti. La Terapia Gestaltica Familiare proposta da Giovanni Salonia dà chiavi di lettura e suggerisce modalità di cura che possano aiutare ogni famiglia a ritrovare la musica che dai loro corpi è generata e a riprendere a danzare la danza della vita. 

 

 

Dell’Autore consigliamo:
La danza delle sedie e la danza dei pronomi,
Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2017, pp. 184