Inclusi, non intrusi

Per uno sguardo più ampio e maturo sulla disabilità

 di Emilia Ciccia
docente di scuola primaria e professoressa a contratto di Pedagogia speciale dell’inclusione presso l’Università della Calabria e l’Università di Bologna

 È da poco calato il sipario sulle paralimpiadi di Tokyo 2020 che, come ogni edizione, hanno generato in chi ha assistito una varietà di emozioni:

stupore, ammirazione, incredulità per atleti che, nonostante menomazioni anche severe, hanno saputo raggiungere obiettivi insperati e impensabili perfino per chi non vive una situazione di disabilità. Fra le diverse tipologie emotive non rientra però – o comunque è coinvolto ancora poco - il piacere fine a se stesso generato dall’assistere ad un evento sportivo: l’ansia del risultato, l’adrenalina messa in circolo in dirittura di arrivo di un percorso o in prossimità del fischio finale di uno sport di squadra. Ecco, il discrimine fra ciò che è diversità e tipicità, fra percorsi separati e paralleli, sta tutto qui. Non solo, contestualizza pienamente la diversità culturale – ma anche esperienziale e quotidiana – che accompagna i termini integrazione e inclusione che, lungi dall’essere sinonimi, definiscono al contrario una visione della disabilità a tratti antitetica.

 Una prospettiva in evoluzione

La considerazione della disabilità secondo una prospettiva basata sui diritti umani è maturata soltanto da pochi decenni. Fino agli inizi del ’900 gli approcci nei confronti delle persone disabili erano tendenzialmente di due tipi: la disabilità come conseguenza di un danno di cui nessuno aveva colpa, a fronte della quale la reazione individuale era di pietà e quella sociale di tipo riparatorio. Secondo questa visione, definita caritatevole-assistenziale, la società si faceva carico della persona disabile attraverso soluzioni di tipo istituzionale e/o monetario ma non ne riconosceva dei veri diritti; la disabilità come conseguenza di un danno alla salute della persona: il disabile, considerato come malato, veniva affidato a medici e clinici che centravano la loro attenzione sulla patologia. La società rispondeva destinando risorse soprattutto allo sviluppo della medicina riabilitativa e al mantenimento di strutture e personale specifico, confermando un approccio di tipo medico.
A partire dagli anni ’60 del secolo scorso succede qualcosa. Gli aspetti caritatevoli e medici vengono via via sostituiti da motivazioni di tipo sociale, e ciò soprattutto grazie alle stesse persone con disabilità e ad organizzazioni da loro costituite, come la Disabled People’s Organization (DPO), che hanno contribuito a creare un terzo approccio alla disabilità, vista come una condizione umana che procura un forte rischio di discriminazione sociale per la persona. La società è l’agente responsabile dell’eliminazione di ogni barriera che ostacoli il godimento dei diritti da parte dei cittadini con disabilità. Risponde alle discriminazioni basate sulla disabilità con azioni di “discriminazione positiva” che rivendicano il diritto alla diversità. Considerare la diversità in una prospettiva di uguaglianza delle opportunità e di difesa di un diritto umano, sposta la cornice di riferimento in direzione di uno sfondo soprattutto pedagogico.

 Il modello ICF

L’Organizzazione Mondiale della Sanità, condividendo l’esigenza di un modello antropologico del funzionamento umano, formula nel 2001 uno strumento di classificazione della salute e del funzionamento (International Classification of Functioning, Disability and Health – da ora ICF) che, oltre a definire, classificandole appunto, le diverse funzioni corporee dell’uomo e le strutture anatomiche che le permettono (ad esempio: la funzione mentale della memoria che è generata dal cervello), delineano in modo ampio e il più possibile esauriente non solo le diverse attività che una persona con una determinata struttura corporea può svolgere, ma anche il grado di coinvolgimento e di partecipazione che le sue funzioni corporee possono garantirle all’interno di uno specifico contesto. Funzionamento e contesto sono le due parole-chiave dell’ICF: una persona può funzionare bene in un contesto facilitante ovvero può, a causa di un ambiente ostacolante e che pone delle barriere, non partecipare ad alcuna attività, sia essa richiesta da altri o personalmente scelta.
Ma il contesto non è solo definito dall’ambiente di vita, può anche essere un fattore personale, una condizione psicologica che si frappone fra ciò che la persona potrebbe fare e ciò che in realtà riesce a fare. In ambito scolastico gli esempi sono molteplici, tanti genitori vengono investiti dalla famosa sentenza “è intelligente ma non si applica” e parallelamente molti insegnanti vivono la frustrazione di non riuscire a far raggiungere un obiettivo ad uno studente nonostante ne abbia le capacità. Sono paradossi che possono essere causati da ansia, bassa autostima, scarso senso di autoefficacia, fattori contestuali di tipo personale che, se adeguatamente riconosciuti e presi in carico, possono essere modificati. Come? Questo dipende da un altro importante fattore contestuale che può, di per sé, costituire un facilitatore o una barriera. È il caso dell’insegnante, rimanendo in ambito scolastico: la sua azione didattica deve sempre prevedere dei facilitatori, delle condizioni che possano aiutare ad apprendere meglio anche in condizioni di difficoltà. Non inserirli, come dice Lucio Cottini, professore di didattica e pedagogia speciale dell’Università di Urbino, non è un’azione neutra. Non prevedere strategie adeguate che potrebbero aiutare gli alunni, equivale a creare delle barriere.
Questi princìpi modificano, allora, ciò che si intende con disabilità, identificata, fino a qualche anno fa, come una restrizione di una partecipazione a causa di una qualche menomazione, strutturale o funzionale. Essa, al contrario, nasce dall’interazione dinamica fra la condizione di salute di una persona e il suo contesto di vita. Da ciò si evince quanto l’ICF non riguardi un “gruppo” perché, in realtà, classifica il funzionamento di tutte le persone: tutti, in un determinato momento della propria vita, possono imbattersi in un ambiente che ostacola il funzionamento e genera disabilità e discriminazione. La gravidanza, ad esempio, pur essendo una naturale condizione del ciclo di vita di una donna e non una patologia, può essere vissuta come una disabilità se compromette l’assunzione da parte di un datore di lavoro. 

Agire per tutti

La convenzione sui diritti delle persone con disabilità dell’ONU del 2006 specifica proprio quanto sia importante individuare e potenziare non solo i facilitatori individuali rivolti alla persona con disabilità, ma anche quelli universali. Nel farlo richiama i princìpi di progettazione universale (Universal Design) che riguardano la progettazione e realizzazione di prodotti, ambienti, programmi e servizi accessibili a tutti, senza adattamenti o azioni specializzate. L’Universal Design nasce nell’ambito dell’architettura, allo scopo di creare strutture accessibili a tutte le persone, comprese quelle con disabilità, invece che agire ex post adattando ambienti in qualche modo inaccessibili a qualcuno. Di seguito, come Universal Design for Learning si è esteso anche in ambito educativo basandosi sull’implementazione di percorsi che garantiscono pari opportunità di apprendimento attraverso un curricolo flessibile e accessibile a tutti gli studenti, compresi quelli in difficoltà o con una certificazione di disabilità.
L’ICF, nonostante sia stato ratificato da venti anni, risulta ancora di difficile comprensione e trova delle sacche di resistenza, sia in ambito clinico che educativo e sociale. La legislazione ha normato da tempo la sua modalità di utilizzo, prescrivendo la redazione delle diagnosi funzionali e della documentazione scolastica secondo i criteri del modello bio-psico-sociale. Provvedimenti di certo importanti ma che, più che una reale inclusione, realizzabile con interventi diretti a tutti, garantiscono ancora solo l’integrazione dei disabili, poiché suggeriscono facilitazioni pensate e rivolte a questi ultimi. Queste riflessioni potrebbero spiegare meglio le emozioni di cui si è parlato ad inizio articolo relativamente alla Paralimpiade. Seppur importante, resta comunque una manifestazione speciale e parallela, un percorso condotto successivamente alle Olimpiadi ufficiali, un momento nel quale gli atleti, grazie alla plasticità che permette loro di ricorrere ad abilità-altre, respirano integrazione ma non vera inclusione.
La progettazione universale, inclusiva e culturale, deve partire necessariamente dalla scuola. L’introduzione di nuove discipline sportive in ambito scolastico, come ad esempio il Baskin, attività che si ispira al basket e che vede nella stessa squadra studenti con e senza disabilità, induce a pensare che la rigida struttura dello sport può essere sconvolta, che il grado di abilità differenti può essere funzionale al raggiungimento dello stesso obiettivo e che, davvero, nel limite è custodito il vero potenziale di ogni essere umano.

Dell’autrice segnaliamo:
Didattica funzionale e inclusione scolastica. Esperienze di Universal Design for learning
in una classe quarta primaria alla XXIX Web-Conference Nazionale Airipa
www.airipa.it