Dio, misura di tutte le cose

L’uomo può conoscere se stesso e gli altri, solo guardando l’amore del Padre

 di Pietro Maranesi
frate cappuccino, teologo, francescanologo

 Chi sono e quanto valgo? Un uomo che voglia conoscere il proprio valore chiedendolo agli altri, non solo non potrà saperlo mai con certezza, ma nemmeno potrà mai sentirsi beato, cioè contento di sé.

L’Ammonizione XIX si occupa proprio di quest’ultimo aspetto, tentando di rispondere alla domanda su chi sia l’uomo beato. La soluzione data da Francesco è semplice e precisa: è colui che «non si ritiene migliore, quando viene magnificato ed esaltato dagli uomini, di quando è ritenuto vile, semplice e spregevole» (Am XIX 1: FF 169); questa “beatitudine” però sarà possibile solo se egli avrà ben chiara una verità di fondo: «quanto l’uomo vale davanti a Dio, tanto vale e non di più» (Am XIX 2: FF 169). Tale certezza gli donerà infatti la verità su se stesso e la libertà nei confronti degli altri, cioè lo farà diventare beato.

 Io, Dio, l’altro

Esiste, insomma, per Francesco una specie di “triangolo esistenziale” nel quale l’io personale e le complesse relazioni con gli altri trovano in Dio il loro definitivo criterio di riferimento. Per un uomo di fede infatti Egli soltanto è la misura assoluta, senza la quale non si può correttamente “apprezzare” se stessi e gli altri. A questa fondamentale verità Francesco ne aggiunge un’altra, direttamente legata alla precedente: il valore con cui Dio pensa l’uomo si può comprendere appieno solo volgendo lo sguardo a Gesù Cristo, nella cui storia vi è la misura definitiva di quanto l’uomo valga agli occhi del Padre, e dunque, anche in se stesso. Tenendo presente tutto ciò, l’espressione del Santo di Assisi contenuta nell’Ammonizione XIX si amplia in due direzioni complementari: guardando a Cristo posso capire sia quanto valgo e chi sono, sia, di conseguenza, quanto e come debbo valutare l’altro, colui con il quale condivido questo spazio e tempo terrestre.
Per Francesco l’uomo vale perché Dio lo guarda come figlio amato nel Figlio, un amore che precede ogni nostra scelta e qualsiasi nostro merito. L’uomo evangelico, che crede a questa buona notizia, sarà, in tal modo, liberato dall’ansia e dall’urgenza di “farsi un nome”. Francesco stesso aveva fatto questa esperienza: vivere la vita da figlio, “amato per amore”, lo aveva liberato dall’urgenza affannosa di ottenere ad ogni costo l’apprezzamento degli altri, o di conquistarsi un posto di prestigio al di sopra degli altri. Se il proprio valore è misurato dallo sguardo dal Padre che è nei cieli, allora l’uomo cristiano sarà liberato dall’affannoso spirito di concorrenza e rivalità, animato costantemente da una tensione che lo porterebbe immancabilmente o ad esaltarsi con arroganza per i suoi successi, o a deprimersi con tristezza per gli insuccessi. Quell’uomo che trova invece in Dio la sua verità, contemplata da Francesco sulla croce, sarà libero, come è detto nell’Ammonizione XIX, sia dalla superbia di essere “magnificato ed esaltato dagli uomini” che dall’angoscia di essere “ritenuto vile, semplice e spregevole”. Si comprende allora perché per il Santo di Assisi è beato solo quell’uomo che cerca in Dio il suo “valore”, perché in lui soltanto trova la verità e la libertà di essere semplicemente e definitivamente figlio.

 Figli dello stesso Padre

Al giudizio di valore che ognuno dovrebbe avere su se stesso, si aggiunge il secondo versante, relativo allo sguardo sugli altri. Se, infatti, ogni uomo è prezioso agli occhi di Dio, allora non c’è dubbio che l’altro non sarà che un fratello, perché figlio dello stesso Padre. La consapevolezza di questo “apprezzamento” ha condotto Francesco a delle scelte evangeliche di enorme novità sociale. Ne ricordiamo solo due, vissute in rapporto ai due gruppi sociali più impegnativi, sia in quel tempo che ai nostri giorni: i poveri che sono fuori del sistema e “gli infedeli”, cioè coloro che hanno una fede ed una cultura diversa. Solo una “valutazione” assunta da Dio come Padre di tutti ha permesso infatti a Francesco di “apprezzare come fratelli” coloro che appartengono alle due categorie, concedendo ad essi rispettivamente misericordia e rispetto.
Partiamo dai poveri. È lo stesso Francesco a raccontare la loro importanza all’inizio della sua vicenda: «il Signore mi condusse tra i lebbrosi e io feci misericordia con essi» (Test 2: FF 110). Incontrò quei “disprezzati sociali” mosso da una nuova prospettiva, grazie alla quale cambiò i suoi criteri valutativi sulla vita: dalla concorrenzialità, per essere ritenuto il migliore e così diventare il maggiore, il cavaliere, alla gratuità, senza chiedere nulla in cambio, facendosi fratello minore. Con i lebbrosi egli assunse lo stesso criterio di “misericordia” utilizzato da Dio nei confronti di noi “miseri”, quando ci donò il suo “cuore” inviandoci il Figlio. L’ultima notazione fatta da Francesco su questa vicenda è l’efficacia che ebbe su di lui: «ciò che prima gli era amaro, si era trasformato in dolcezza» (Test 3: FF 110). Lo sguardo assunto dal Signore nel valutare quei reietti lo rese “beato”, donandogli un sapore nuovo, dolce su se stesso, sul mondo e su Dio, regalandogli cioè un sapore buono-bello sulla vita.
Qualcosa del genere avvenne con un’altra categoria in quel tempo molto difficile da accogliere e apprezzare: gli infedeli, i quali, essendo “diversi” per fede religiosa, erano percepiti normalmente come “avversi”. Nei loro confronti Francesco impiega gli stessi criteri precedenti di “valutazione”: siamo tutti fratelli, dunque, con una stessa dignità perché amati e apprezzati da un unico Padre. Solo così infatti si capisce il “metodo ribaltato”, richiesto dal Santo ai frati nel loro modo di incontrare gli infedeli: «I frati che vanno tra gli infedeli non facciano liti né dispute ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani» (Rnb XVI 6: FF 43). Il cambiamento dei rapporti è preciso: dalla tensione oppositiva fatta di dispute e liti, alla sottomissione reciproca senza pretese. Lo spostamento però ha un criterio di fondo, posto da Francesco a base della paradossale strategia richiesta ai frati: “per amore di Dio”. A motivo di quell’amore che Egli ha per tutti noi, l’altro non è più un avversario da superare e sottomettere alla propria fede, ma un fratello a cui affiancarsi mediante una scelta di dialogo rispettoso e franco.

 Per una vita buona

Quell’espressione dell’Ammonizione XIX da cui siamo partiti ci ricorda, dunque, che il mondo personale e quello collettivo cambierebbero profondamente se li valutassimo partendo dai sentimenti con cui Dio in Cristo guarda e tratta tutti noi, chiamandoci figli e chiedendoci di essere tra noi fratelli. Questa è la semplice e rivoluzionaria antropologia evangelica di frate Francesco. Essa ci aiuterebbe a diventare uomini più capaci di accogliere sia noi stessi con le nostre ferite e fragilità, riconoscendo in esse uno spazio nel quale Dio ci dona il suo amore paterno, sia gli altri con i quali condividiamo gli stessi desideri di comunione e fraternità, e le stesse paure e difficoltà nel rispettare le nostre diversità. Lo sguardo buono di Francesco sull’uomo, appreso dal vangelo, costituisce ancora oggi l’unica via che conduce alla vita buona, quella che dovremmo vivere da figli di Dio e da fratelli tra di noi.

 Dell’Autore segnaliamo
Francesco fratello di tutti. La fraternità nella proposta del Santo di Assisi
(Comunità cristiana: linee emergenti – Fratelli tutti), ed Cittadella, Assisi 2021.