Il ritratto dell’uomo

La Bibbia mette in luce pregi e difetti dell’umanità per aiutarla a ricercare Dio

di Stefania Monti
biblista, Presidente delle clarisse cappuccine italiane

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Partecipi dell’attenzione divina

Che cosa andiamo cercando quando ci accostiamo alle Scritture? O ancora: che cosa ci aspettiamo? O meglio: saremmo tuttora capaci di sorprenderci alla lettura dopo che, una domenica dopo l’altra, abbiamo ascoltato testi e omelie?

«Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà, mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, hanno accesso al Padre nello Spirito Santo e sono resi partecipi della divina natura. Con questa Rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé». Così la Costituzione Dogmatica Dei Verbum (n. 2); e con questo già smonta un pregiudizio che potrebbe esserci.

Nelle Scritture infatti non si dice chi sia Dio, se questo andavamo cercando, sotto il profilo dogmatico, ma piuttosto quello che ha fatto e vuol fare per raggiungere un obiettivo (e in questo agire manifesta e rivela se stesso): avere gli uomini non solo come amici, ma soprattutto come interlocutori privilegiati, compagni d’avventura e di strada: difficile tradurre la parola “comunione” in termini quotidiani, dato lo spessore che essa ha acquistato nel tempo fino quasi a ipostatizzarsi.

Perché, in particolare, la comunione autentica non è fusionale, ma rispetta l’alterità. Il testo conciliare di fatto precisa che si diventa “partecipi”, non che si è assorbiti.

Noi siamo dunque interlocutori necessari, non occasionali: noi che leggiamo e, prima di noi, i personaggi delle storie bibliche in cui possiamo benissimo riconoscerci, nel bene e nel male. Ovvero: se le Scritture parlano di un Dio che cerca gli uomini, parla anche degli uomini che sono cercati. Forse, anzi, parla più di loro che di lui.

Ci sono due domande che Dio pone e che dovrebbero renderci consapevoli che la Bibbia è sì una teologia per l’uomo, ma è soprattutto un’antropologia per Dio e per noi: «Dove sei?» (Gen 3,9) rivolta al primo uomo, e «tu dove eri?» (Gb 38,4), rivolta a Giobbe. La prima ha un tono preoccupato, Dio sa infatti che qualcosa è andato storto se l’uomo si nasconde; la seconda è ironica. Giobbe non deve pretendere di essere il centro dell’universo, pur nella sua sofferenza, che lo assorbe totalmente. Sono più le cose che Giobbe non sa di quelle che sa; deve perciò “capire se stesso” e la propria realtà davanti a Dio.

Poco affidabili e pretenziosi

In entrambi i casi le Scritture ci dicono qualcosa sull’uomo più che qualcosa su Dio.

Nel primo caso ci dicono che l’uomo è un compagno poco affidabile; nel secondo che è un essere pretenzioso. Su questi due modelli fondamentali si costruisce la presentazione dell’umanità che compare nel Primo Testamento. Pare, pessimisticamente, un’umanità infingarda e infedele, debole e un po’ vigliacca, che raramente si riscatta, se non grida verso Dio che la riscatta.

Essa pare contraddire l’ottimismo del racconto della creazione, ottimismo per altro tutto voluto dato che il racconto fu scritto a scopo di incoraggiamento. Ma non fissiamoci troppo sulla contrapposizione tra pessimismo e ottimismo, parliamo piuttosto di un realismo disincantato.

Benché già Filone d’Alessandria avesse studiato le grandi figure del Primo Testamento identificando ognuna con una virtù nella preoccupazione di coniugare Torah e filosofi classici, le stesse grandi figure sono personaggi per niente ideali. Assassini, adulteri, e, come noi, virtuosi solo perché manca l’occasione di far peggio.

Le Scritture danno dell’umanità un ritratto a tutto tondo, riservandole un’attenzione che certo non viene data all’Invisibile. Questo ritratto è, di volta in volta, individuale (i singoli personaggi) o collettivo (il popolo d’Israele) e non è un ritratto gradevole. Con alcune eccezioni: donne che, nonostante decisioni e comportamenti disinvolti, pensano sempre al bene comune e qualche grande uomo che, nonostante i pessimi comportamenti, ha anch’egli a cuore la cura della collettività. In generale però abbiamo davanti un’umanità debole, descritta senza idealizzazioni e messa in primo piano perché oggetto dell’interesse divino. Questa umanità è il filtro o la lente attraverso cui comprendere noi stessi.

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Capaci di cambiare

Il Nuovo Testamento presenta l’eccezione delle eccezioni: Gesù è l’uomo come Dio lo ha voluto e pensato, fedele e docile, in tutto messo alla prova come noi escluso il peccato (Eb 4,15), ossia quel senso di ribellione più o meno consapevole, più o meno intelligente, che allontana da Dio. Accanto a lui le figure di apostoli e discepoli mostrano le stesse pecche e le stesse defaillances dei personaggi del Primo Testamento.

Ci mostrano, però, anche una prospettiva importante: sono tutti capaci di cambiare (noi diremmo di “convertirsi”). Giacobbe è un furbo che affronta la solitaria lotta con Dio; Mosè un assassino che, dopo un lungo periodo di silenzio nel deserto, incomincia a pensare solo al popolo, mai a se stesso; David un adultero capace di radicale pentimento. L’elenco potrebbe allungarsi. In ogni caso ci dice come siamo e che esiste sempre una via d’uscita, purché si sia pronti a coglierla.

Riscoprire le Scritture come il grande libro dell’uomo - cosa che gli ebrei sanno da sempre - non è un moralismo riduttivo, come potrebbe sembrare. Perché non esistono né regole né ricette per diventare uomini o più uomini. Le Scritture raccontano come ogni uomo sia un essere complesso, a volte complicato e spesso contraddittorio. Ma è importante che si lasci ammaestrare dagli altri uomini e dai fatti. Soprattutto dai fatti, perché è in questi che Dio si rivela e deve essere scoperto.

Senza il filtro delle Scritture che aiutano a ritrovare le tracce di Dio, la storia si presenta come qualcosa di magmatico e imprevedibile, un fiume in piena che sfocerà da qualche parte, ma è illeggibile nel suo percorso. L’uomo vi è immerso come in un “grande gioco” che lo supera. Le Scritture lo difendono dal gigantismo di chi si sente padrone delle situazioni, così come lo tutelano dal sentirsi schiacciato da un mondo e da accadimenti ostili. In breve, parlano dell’uomo perché sia davvero uomo, così come Dio lo ha pensato, ponendolo davanti a successi e cadute, vita e morte, bene e male entro un orizzonte dal quale Dio non è mai assente, anche se spesso si nasconde per essere cercato.