Quando a far tardi è lo sposo

La creazione, come tutta l’umanità, attende e desidera la parusia.

 di Stefania Monti
clarissa cappuccina a Fiera di Primiero, biblista

 L’anonimo autore della seconda lettera di Pietro, scrivendo a proposito della venuta ultima del Signore e del fatto che egli tarda, afferma che di essa ha parlato «il nostro fratello Paolo» (2Pt 3,15) e che nelle sue lettere, a questo proposito, «ci sono alcuni punti difficili da comprendere» (2Pt 3,16).

In realtà le cose difficili nell’epistolario paolino sono parecchie, o meglio: a prima lettura e intuitivamente pare di capirle, ma quando si scende nei dettagli si vede che le cose si complicano. Accade proprio così anche con il testo di Rm 8,22. La nostra attuale sensibilità porta molti a leggere il testo in chiave ecologica, circa il rispetto dell’intera creazione, ma le cose non stanno proprio così o, piuttosto, non stanno immediatamente così. Per arrivare a questa lettura è necessario un certo percorso.
Il termine ktisis che traduciamo “creazione” compare sette volte nella lettera ai Romani (1,20.25; 8,19.20.21.22.39) ma questo non semplifica il problema della sua interpretazione: si è infatti sfortunati quando si ha una sola testimonianza, ma anche quando se ne hanno troppe le cose non sono facili. Di per sé, infatti, ktisis copre un ampio ventaglio di significati, da “atto di fondazione (di una città)”, “atto del creare”, “cosa creata”, “istituzione”, “ordinanza” e, nell’uso rabbinico, il suo corrispondente aramaico identifica il convertito dall’idolatria al giudaismo. Indica la creazione in generale in Giuseppe Flavio e nei LXX, ma più spesso è riferito all’uomo e alla realtà creaturale umana, al punto che ancora Agostino, a proposito di “creazione”, pensava solo all’uomo.

 

Umanità mutilata e salvata

Il contesto di Rm 8,22, a ben guardare, si riferisce agli umani che, da semplici creature sottoposte al limite del tempo, e alla mataiotēs, ossia alla vacuità, aspirano alla gloria dei figli di Dio. Il vocabolo mataiotēs è di particolare interesse, perché è praticamente esclusivo dei LXX, che lo usano per tradurre hebel di Qohelet (impropriamente “vanità” e, meglio, “vuotaggine”, per alcuni “il nulla”) e compare negli autori ecclesiastici, ma non torna che molto raramente in autori di ambito “secolare”.
Dunque è l’uomo che ha abdicato al bene per sua volontà sottoponendosi alla vuotaggine e ora aspira alla liberazione e alla pienezza di vita. Per questo la creazione/uomo soffre le doglie del parto - che nella letteratura profetica preparano la venuta del Messia e quindi la liberazione finale. La vacuità di cui parla Qohelet è un mancare di qualcosa, l’essere privi di valore, e dal complesso delle ricorrenze del Nuovo Testamento (Rm 1,21; 1Cor 15,17; Ef 4,17; 1Pt 1,18), si vede che mataiotēs si riferisce allo stato causato dal peccato dell’uomo e quindi una mancanza di tipo morale e religioso. In poche parole, di un’umanità mutilata. Come tale essa è sottoposta alla rovina, alla distruzione e all’annientamento (il greco phthora è un termine molto più forte del semplice “caducità”): il testo ha un suo tono drammatico perché si parla di corruzione fisica fino appunto alla dissoluzione.
Già Lyonnet notava che non abbiamo a che fare qui con un discorso cosmologico, ma con una dottrina teologica della storia della salvezza. Il testo presenta infatti una sorta di contrapposizione tra “creazione” e “figli di Dio” che potrebbe essere intesa o come contrapposizione tra tutta la creazione e mondo umano o come distinzione tra mondo umano bisognoso di salvezza e umanità salvata. Fermo restando che la seconda ipotesi è quella più probabile, possiamo ricordare che comunque la storia della salvezza comincia con la creazione dell’universo, e trova riscatto più volte nella storia, in particolare dal racconto del diluvio in poi: gli esempi sono numerosi, ma basterà ricordare per tutti la sintesi del Sal 136,5-9.

 Tutto in Cristo

Inoltre il Primo Testamento insiste sul ruolo della Sapienza nella creazione (Pr 8,22-30). Nei testi tardi essa è incarnata dalla Tora (cf Ba 4,1; Sir 24,23) che è la prima delle sette cose che Dio ha creato prima di tutto il mondo: «Insegnarono i nostri maestri: Sette cose furono create prima che fosse creato il mondo: la Tora e la conversione, il giardino dell’Eden e la geenna, il tempio, il trono della gloria e il nome del Messia» (Pes 45a). Senza la Tora, che manifesta la volontà di Dio ed è il modello a cui Dio sempre si ispira, il mondo non sarebbe nato, né potrebbe sussistere. Come conferma la Mishna: «Su tre cose il mondo sta: sulla Tora (si noti che è al primo posto), sulla aboda (cioè sul culto e sulla preghiera) e sulle opere di carità (Pirqe Abot 1.2) - la gerarchia di questi elementi è della massima importanza.
Ora, sia per Paolo sia per Giovanni, Cristo assume il ruolo della Tora come mediatore della giustificazione e della creazione dell’universo (basti ricordare l’inno di Ef 1,33ss o Col 2,13ss). Colui che riscatta l’uomo dalla dissoluzione riscatta dunque anche tutto il creato in senso - per così dire - allargato. Tale consapevolezza si trova in alcuni testi della tradizione oltre che nel Nuovo Testamento; si veda per esempio la triplice affermazione di Ambrogio: «Resurrexit in eo mundus, resurrexit in eo caelum, resurrexit in eo terra» (In morte del fratello Satiro II,102): «in lui è risorto il mondo, in lui è risorto il cielo, in lui è risorta la terra».

 Già e non ancora

Se la morte ha tutto coinvolto e se la resurrezione tutto ha salvato, perché non dovrebbe tutto coinvolgere anche l’attesa della parousia? In questo senso, che in parte travalica la lettera del testo paolino, siamo autorizzati a leggere in chiave di attenzione da parte del creato l’affermazione della lettera ai Romani che stiamo esaminando. Come si può vedere, però, il percorso non è strettamente esegetico: coinvolge la storia dell’esegesi e un discorso teologico.
Del resto - e questa è l’occasione buona per dirlo - non possiamo pretendere che nelle Scritture siano contemplate tutte le situazioni possibili o a noi note o che ci stanno a cuore. È ben vero, come si è visto nel caso della mataiotēs, che la condizione umana, evocata dall’Apostolo, ha potuto coinvolgere l’insieme delle creature umane. Ma anche il kosmos, benché ordinato, non è sempre stato guardato con favore. Il racconto della creazione parla di un uomo che è stato fatto giardiniere e che si è poi rivelato uno sfruttatore vorace. Alla fine non è tanto «l’aiola che ci fa tanto feroci» - come pensava Dante (Paradiso XXII, 151) - a renderci tali, ma siamo noi umani che ci siamo rivolti a lei con ferocia.
Anche per la creazione esistono dunque un già e un non ancora, così come per l’uomo: il già della resurrezione in Cristo e il non ancora della manifestazione di questo riscatto. Il tempo, descritto come dissociazione tra causa ed effetto, altro non è che il tempo della pazienza di Dio (cf 1Pt 3,20) in cui l’uomo può ravvedersi per accedere alla sua gloriosa epifania di figlio di Dio e la creazione - che ha poco o niente da rimproverarsi, perché gran parte delle sue stesse catastrofi hanno una matrice umana - non può che gemere, sperando, a sua volta, che gli uomini rinsaviscano.