Dopo l’analisi delle diverse crisi della parrocchia, ecco la pars construens: Sergio Di Benedetto prova, in questo numero, ad avanzare qualche proposta ripensando le comunità in direzione di un annuncio del vangelo più aderente all’umanità che siamo e al tempo in cui viviamo.

a cura di Gilberto Borghi

 In piccioletta barca desiderosi d’andar

La crisi della parrocchia: qualche proposta

 di Sergio Di Benedetto
Ricercatore di Letteratura Italiana all’Università della Svizzera Italiana di Lugano, insegnante di lettere, scrittore e blogger di Vinonuovo.it

 La questione del clero e dei laici

Da più parti (anche molto in alto) si denuncia il fenomeno del clericalismo, che tuttavia pare non tramontare, soprattutto nelle parrocchie.

Con questo fa il paio il carico di lavoro e aspettative che molto spesso i sacerdoti sentono sulla propria persona, andando a smarrire quello che dovrebbe essere lo specifico del ministero sacerdotale. Un prete non può occuparsi dei sacramenti e della contabilità, dell’accompagnamento spirituale e del costo delle caramelle del centro giovanile, dei restauri e dei malati. Ma al tempo stesso non può più essere il terminale e l’estremo decisore di ogni aspetto, relegando i laici al solo compito consultivo.
La consapevolezza ormai matura circa gli stati di vita, i carismi, il valore del battesimo come sacramento su cui poggia l’essere cristiano, consentono di pensare a un riordino dei compiti all’interno della comunità, in cui il potere decisionale, giuridico ed economico non sia più appannaggio esclusivo del clero. Il sacerdote potrebbe essere pensato come l’assistente spirituale della parrocchia, sull’esempio di ciò che avviene in alcuni movimenti e associazioni. Per gli ambiti non strettamente sacramentali (economico, sociale, culturale, educativo) sarebbe necessario avere dei responsabili laici, uomini e donne, eletti dalla comunità dei battezzati, a rotazione e con incarichi temporanei. Il tutto coordinato da una figura laicale, anch’essa a tempo, magari remunerata, nominata dal vescovo su indicazione della comunità, che possa avere quel “potere di firma” imprescindibile nella gestione e nel coordinamento delle varie parti.
Va da sé che il consiglio pastorale va totalmente ripensato: non più solo organo consultivo, ma capace anche di deliberare. Forse così si realizzerebbe una vera corresponsabilità e il clero potrebbe dedicarsi alla cura della vita spirituale, alle relazioni, ai sacramenti, all’ascolto, alla preghiera in modo più specifico.

 Una vera formazione

È chiaro che una divisione dei compiti e delle responsabilità, anche giuridiche, implica una formazione solida, sia nel campo di intervento, sia da un punto di vista umano che da un punto di vista teologico-spirituale. Ritengo che sia in ambito diocesano che si devono pensare i cammini di formazione, anche avendo il coraggio di negare a persone non adeguate di rivestire ruoli apicali; i cammini andrebbero strutturati inoltre sulla base di quello che il territorio richiede: una comunità e un insieme di comunità sarebbero chiamate a discernere i propri bisogni e desideri formativi. Non a tutti può essere chiesto tutto e non tutti possono fare tutto. Perciò è necessario che almeno chi coordina abbia un equilibrio umano, psicologico e spirituale, una maturità personale e un cammino cristiano avviato.

 Rianimare la liturgia

Bisogna tornare ad una ars celebrandi curata, in cui i vari ministeri siano valorizzati, ma siano anche oggetto di formazione, attenzione, custodia, riconoscimento. Celebrazioni sciatte, Parola di Dio mal letta, servizio liturgico trascurato, musica improvvisata, protagonismi liturgici, omelie verbose, astratte o recitate non possono più essere tollerate. La liturgia deve essere una preoccupazione della comunità, evitando anche formalismi, anacronismi, linguaggi che non dicono più nulla all’uomo contemporaneo se non nostalgie o mancanza di gusto estetico, quando non siano espressioni di problemi personali di altra portata. Anche in questo caso, un gruppo liturgico composto da cristiani ben formati, che abbiano in mente anche la realtà della comunità in cui si prega, sembra essere un’urgenza non più rimandabile.

 La gradualità eucaristica

L’Eucarestia è il culmine della sequela di Cristo ed è anche un mistero inesauribile, ma nella forma della Messa è pure - dobbiamo ammetterlo - assai difficile: c’è da chiedersi se proporlo subito, sempre e a tutti; farne il “metro” esclusivo di misurazione della vita cristiana rischia di risultare, in ultima analisi, riduttivo o controproducente. Si può dunque pensare a una riduzione del numero delle Messe, soprattutto la domenica (e così magari renderle più curate), e sostituire ad alcune celebrazioni eucaristiche dei brevi momenti di riflessione e preghiera sulla Parola di Dio, animate anche dai laici, che possano venire incontro a quanti non sentono ancora di poter vivere in pienezza e nella completezza il mistero eucaristico. Abbiamo pur visto in tempo di pandemia che il “precetto domenicale” può essere rivisitato con evangelica creatività. Cammini graduali e diversi che possano così intercettare e coinvolgere quanti stanno magari sulla soglia, che vorrebbero avvicinarsi in modo progressivo, mantenendo in tal modo il rispetto per storie e scelte di vita differenti.
Anche per i bambini, per i matrimoni, per i funerali si potrebbero trovare forme celebrative diverse dalla messa. Lo stesso san Tommaso d’Aquino va in questa direzione: «la stessa cosa non è ugualmente possibile all’uomo virtuoso e a chi è privo di virtù; come non è ugualmente possibile al bambino e all’uomo maturo» (S. th, I-II, q. 96, a 2). La lectio divina, l’adorazione eucaristica, il silenzio e la meditazione, e le molte altre pratiche della tradizione, possono così rivelarsi in sintonia maggiore con i bisogni di oggi.

 Iniziazione cristiana

È necessario rivederne a fondo i percorsi! Si può pensare a conferire battesimo e confermazione insieme nel primo anno di vita, rimandando la prima Eucarestia e la confessione a un’età più consapevole per i bambini; oppure si può ridurre a un anno il cammino di preparazione a comunione e confessione, e lasciare la confermazione a un’età più adulta, svincolando, per chi vuole, la formazione e la catechesi dall’essere solo finalizzati ai sacramenti. O ancora, si potrebbe immaginare un percorso che lasci ai bambini, agli educatori, ai genitori e al sacerdote la scelta dell’età più adatta per il singolo, evitando mete stabilite solo in base all’età e rispettando così la varietà delle situazioni dei fedeli e delle famiglie.
Poi il problema dei giovani: per il contesto odierno, è necessario e assolutamente formativo evitare di chiudere i giovani in situazioni sempre più piccole e asfittiche. Bisogna favorire scambi e libertà, bisogna dare fiducia (e quindi spazi, tempi e “potere”) alla varietà delle esperienze giovanili e togliere i moralismi all’annuncio cristiano. Non è più rimandabile un coinvolgimento stabile di quanti realmente vivono con i giovani al di fuori del contesto ecclesiale: insegnanti, educatori, allenatori, animatori, accompagnatori, psicologi, sociologi, artisti. Si tratta di figure che conoscono i mutamenti della condizione giovanile, portatori di preziose esperienze e intuizioni che non vanno più lasciate ai margini.

 Territorialità e specializzazione

Fatto salvo il depositum fidei, a fronte dell’ampia mobilità del mondo moderno si deve riconoscere che la territorialità non è più un criterio esclusivo di appartenenza: bisogna rafforzare la fraternità tra le parrocchie, lasciando ormai piccole rivalità, attaccamenti anacronistici e nostalgie fuorvianti (e avendo anche il coraggio dell’impopolarità); penso a una fraternità che sappia condurre poi alla valorizzazione dei singoli carismi: ci potrà così essere la comunità più attenta alla carità, quella attenta alla cultura, quella alla preghiera, e così via, in una sinergia che non spezzi e separi, ma valorizzi il poliedro (immagine cara a papa Francesco) e le risorse delle varie parrocchie.
Da qui possono poi derivare criteri di discernimento sulle scelte concrete da compiere: quali strutture non sono più utili all’annuncio del vangelo in un territorio e ai carismi che quel territorio racchiude? Chiediamoci, con confronti franchi e sguardi onesti sul contesto che abitiamo: quali edifici sono oggi un costo, quali iniziative sono solo fossili da museo? Molte delle nostre attività sembrano ancora nel mezzo del guado tra mondo agricolo e mondo informatico!

 Il “cortile dei cercatori” e i nuovi linguaggi

Robert Wuthnow elabora una distinzione interessante tra “cercatori” e “residenti” (poi ripresa da Tomaš Halík). Se una parrocchia vuole essere “residente” dovrebbe interrogarsi sul modo di mettersi in ascolto e in dialogo con i “cercatori” del nostro tempo. In che modo farci loro compagni di viaggio, secondo la grande icona di Emmaus? Come accostarsi, come condividere pene e gioie, domande, dubbi e sguardi sul futuro? Ne sono convinto: ai residenti molto hanno da insegnare i cercatori: possono portare vita, fecondità, possono rianimare quel “tesoro nascosto” evangelico che i residenti sentono minacciato. Penso a un “cortile dei cercatori” (echeggiando il “cortile dei gentili”): iniziative e spazi di ascolto e confronto libero e franco, in posizioni paritarie, dove i residenti possano anche mettere a parte i cercatori di quello che la fede cristiana ha loro donato.
Ma qui è necessario rinnovare anche i linguaggi, sia quelli verbali, sia quelli del culto. La pandemia ci ha dimostrato che la rete va abitata: anche in questo caso, non però da maestri che sanno, ma da uomini in cammino. Troppo spesso non ci si domanda: cosa stiamo comunicando al cercatore? Quando proponiamo convegni e percorsi formativi su vari temi in cui intervengono solo sacerdoti, o solo uomini, magari con un’unica donna per “sistemare la coscienza”, che idea di Chiesa stiamo dando? Il modo in cui comunichiamo e il cosa sono aderenti al vangelo, sono comprensibili o sono solo espressione di autoreferenzialità, attaccamento al potere, miopia, ipocrisia? In fondo: annunciamo il kèrigma o la forma che esso ha assunto nel nostro passato?
Quanta tristezza generano i gruppi che parlano tutti nello stesso modo, con lo stesso lessico, le stesse immagini, che ripropongono i medesimi ragionamenti? Quanta scarsa fiducia nella ragione e nella libertà di pensiero (e quindi nello Spirito) palesano la parole d’ordine identitarie che rassicurano, nascondendo però l’umano che pulsa?