Per tutti, per sempre

«Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino» (Mt 10,7)

di Giuseppe Ghiberti
biblista di Torino e presidente della Commissione diocesana per la Sindone

 

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Un maestro fiducioso

Il discepolo di solito va alla scuola di un maestro, perché vuole diventare maestro anche lui. Ai suoi discepoli Gesù non ha mai lasciato questa illusione: non diventeranno come lui, perché lui solo è maestro. Eppure egli, a un certo momento della loro vita comune, li manda a fare i predicatori, come se fossero anch’essi maestri (Mt 10,5.16). Poi ritorneranno e lui continuerà il suo intervento formativo, ma intanto si è fidato di loro e lascia capire che quell’esperienza avrà un futuro. Quando? Questo proprio i suoi discepoli non riuscivano a indovinarlo, perché non potevano aspettarsi niente di più naturale che di riprendere ancora altre volte queste campagne di propaganda, ritornando sempre da lui.

Invece le cose andarono diversamente. Già Gesù inizia molto presto a fare strane puntate nel futuro, prospettando un tempo nel quale un posto per una predicazione di successo sembra proprio non esistere. Poi il clima con le autorità religiose della sua gente peggiorerà in maniera radicale, fino al realizzarsi anche troppo realistico di quanto egli ha predetto. Una fine più vergognosa del misterioso maestro non era immaginabile. Eppure accade l’imprevisto, che però i discepoli ricorderanno essere stato predetto insieme al destino di morte: quel crocifisso torna in relazione con i suoi vecchi aderenti, anche se in una forma tanto esaltante quanto inattesa (Mt 28: tutto il capitolo). Addirittura il gruppo delle donne discepole che sono in visita alla sua tomba sperimentano un contatto vero col suo corpo. In questa condizione nuova Gesù non li illude però di riprendere la vita di prima; riprende invece il discorso fatto nel periodo meno problematico della predicazione in Galilea e dice loro semplicemente “andate”.

La prima volta che li aveva chiamati e aveva incominciato a ufficializzare il gruppo dei “Dodici”, l’evangelista Marco notava che «li costituì dodici, perché fossero con lui e per mandarli ad annunciare» (Mc 3,14). Stare con lui ed esser mandati è un’accoppiata un po’ strana, difficile da concordare (e pure così vera), ma dopo la resurrezione la cosa si realizza in forma molto più programmatica: Matteo dice che «gli undici discepoli» (ma quanti altri discepoli ci sono dietro di loro, nel succedersi delle generazioni!) devono andare a fare discepoli tutti i popoli; godranno però dell’assicurazione che Gesù è con loro tutti i giorni (Mt 28,19-20).

Una questione di famiglia

Il racconto è molto misterioso, non facile ma bello. Bisogna resistere alla tentazione di interpretarlo in chiave di favola, perché la prima cristianità vi ha trovato la memoria realistica di un impegno affidato dal Signore crocifisso vivente, come uomo vero, con una proiezione destinata a impegnare tutti i secoli e tutti i discepoli. Vi si intuisce un progetto perseguito con coerenza, in fasi successive, senza soluzioni di continuità. Protagonista è il Maestro che invita a una sequela senza tempi di attesa (Mt 8,18-22), con un’autorità che non ammette appello. Nell’ultimo incontro egli si qualificherà come colui a cui «è stato dato ogni potere in cielo e in terra» (Mt 28,18) e in forza di esso egli manda a destinatari così numerosi da coincidere con l’intera umanità.

È un atto di fiducia e di autorità somma. Nonostante tutti i limiti dei discepoli, sottolineati dall’evangelista, Gesù non accennò mai a ritirare loro la sua fiducia. Anzi, man mano che la riflessione sulla memoria di quella convivenza si approfondiva, se ne evidenziavano tratti sempre più toccanti: l’evangelista Giovanni ancorerà quell’invio alla missione che egli stesso ha ricevuto dal Padre (Gv 17,18 e 20,21), stabilendo un rapporto da capogiro. A questo punto la missione che riceve il discepolo diventa una questione di famiglia, perché gli comunica i rapporti che esistono tra Gesù e il Padre; e con i rapporti, anche gli incarichi, i poteri e l’efficacia dell’azione. Si dirà: sogni di Giovanni, ma il discorso di Matteo non è molto lontano, perché quel Gesù che sarà con noi fino alla fine del mondo (Mt 28,20) è l’Emanuele, Dio con noi (predetto in 1,23). La sua presenza rende Dio presente; gli apostoli inviati da Gesù rendono visibile la sua presenza presso “tutte le nazioni”.

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L’annuncio più bello

Gesù, nel linguaggio di Matteo, ama una parola particolare, il verbo poreuomai, “andare”, usato sia per il primo invio (10,7) sia per quello definitivo (28,19). Avrà avuto, allora, gente giovane davanti a sé, quando non è difficile accettare di andare; ma divennero anziani presto - e continuarono ad andare. Il comando di Gesù non si arresta mai. E forse proprio per questo lascia invecchiare meno in fretta.

Il compito per cui i discepoli vengono mandati ha qualcosa in comune col dire: annunciare, fare discepoli (e contestualmente battezzare), insegnare. Viene la domanda sull’oggetto da comunicare e la risposta è immediata: tutto e solo quello che Gesù stesso ha insegnato; né può esser diversamente, se questo invio prende origine e forza dall’iniziativa e dall’autorità di Gesù. Chi presumesse di staccarsene o di metterci del suo snaturerebbe il rapporto che dà senso e forza al suo andare.

Con i suoi uditori Gesù ha cercato di farsi capire, semplificando fin dove gli riusciva, mettendo insieme informazioni discrete sulla sua persona con l’annuncio del Regno di Dio che si stava realizzando. “Fare discepoli” vuol dire orientare a dedicare la propria vita alla causa di una persona, senza stancarsene e staccarsene; Regno di Dio è l’affermazione della salvezza che solo Dio può dare, attraverso l’intervento di Gesù. Il discepolo di Gesù si comporta come lui e si dedica totalmente, come lui, agli interessi di quel Regno. Niente di più concreto e più totalizzante, anche perché, non specificando il modo, Gesù impegna il discepolo in qualunque situazione si svolga la sua vita. Questo significa due cose contemporaneamente: che nessuna condizione di vita esenta il discepolo dall’impegno dell’annuncio e che suoi destinatari sono tutti gli uomini in qualunque condizione di vita si trovino. Ma anche che non c’è nulla di più bello della consapevolezza che ogni vita è capace di annuncio e che ogni fratello è destinatario di questa buona notizia.