E il tonno disse: “Viva la rete!”

La democrazia alla prova più difficile: sopravvivere alle “libertà” di internet

di Aluisi Tosolini
docente presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università Cattolica di Piacenza e presso la scuola di Specializzazione (SSIS) dell’Università di Parma

  Manuel Castells pubblicò nel 1996 il primo volume (La nascita della società in rete) di una trilogia dedicata alla società contemporanea e alle sue trasformazioni connesse a internet e al digitale.

Una delle “radici” di internet, scrive Castells, è il filone libertario, ovvero l’idea che grazie alla rete, al digitale, alla comunicazione “uno a uno” vi sarebbe stato più dialogo, più libero confronto tra idee, maggiore partecipazione e democrazia.
A fine 2018, sempre negli Stati Uniti, la professoressa Shoshana Zuboff pubblica il volume tradotto poi in Italia con il titolo: Capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri. Sono passati poco più di vent’anni e lo scenario è completamente cambiato.
Ed è uno scenario brutale, come ha sintetizzato la stessa Zuboff: «Chi è che sa? Chi è che decide chi sa? Chi è che decide chi decide chi sa? Ora i capitalisti della sorveglianza hanno in mano la risposta a ciascuna di queste domande, anche se non li abbiamo mai eletti per governarci. Ed è questa l’essenza del colpo di stato cognitivo. Queste persone rivendicano l’autorità di decidere chi detiene la conoscenza accampando diritti di proprietà sulle nostre informazioni personali, e difendono questa autorità con il potere di controllare sistemi e infrastrutture informativi di cruciale importanza».

 Dentro una bolla

Il livello di analisi della Zuboff è quello strutturale, macro. È il livello che vede nelle grandi aziende digitali che controllano i dati di buona parte dell’umanità il rischio enorme della fine della democrazia. L’opposto della medaglia, il livello micro, è costituito dalla vita quotidiana in cui ognuno di noi è alle prese con la propria bolla. Lo studioso Eli Pariser ha pubblicato, nel 2011, un libro di grandissimo interesse intitolato Il filtro. Quello che internet ci nasconde. Pariser fa riferimento al fatto che, grazie agli algoritmi che tracciano la nostra vita in rete, i nostri interessi, i siti che visitiamo, i giornali che leggiamo, le cose che comperiamo, viene costruito il nostro profilo ed in base a questo specifico profilo ci vengono proposti nuovi siti, nuovi acquisti, nuove letture, nuovi viaggi.
Veniamo così chiusi in una bolla, che alcuni definiscono autismo informazionale, nella quale in sostanza incontriamo solo noi stessi o le persone che la pensano come noi, che frequentano il nostro stesso “giro”, con le quali andiamo necessariamente d’accordo. Secondo alcuni si tratta della fine della conversazione democratica, della fine del dialogo come base della nostra visione del mondo.
Il legame tra i due momenti, quello individuale e quello collettivo, sistemico, è apparso evidentissimo nel maggiore scandalo digitale/politico degli ultimi anni, ovvero lo scandalo Cambridge Analytica.
Di cosa si tratta? Nel 2018 negli Stati Uniti si scoprì che una società di analisi dei dati, Cambridge Analytica appunto, venne accusata di aver comprato i dati di navigazione e consumo di milioni di persone mettendo poi a punto un microtargeting comportamentale, ovvero la possibilità di personalizzare al massimo grado la pubblicità ed i messaggi rivolti ai profili iper precisi dei singoli cittadini. Ciò avrebbe permesso di personalizzare anche i messaggi di comunicazione politica durante la campagna elettorale di Donald Trump lavorando sui gusti e sulle emozioni delle persone.
Se a questo si aggiunge la massiccia campagna di fake news, il cerchio si chiude. Nel corso della campagna elettorale del 2016 entrarono infatti in azione moltissimi account falsi gestiti automaticamente da programmi di intelligenza artificiale (chiamati boot) che diffondevano notizie false in tempo reale in concomitanza con i più importanti eventi elettorali calibrando i passaggi sui diversi social e misurando con precisione le reazioni degli utenti “reali” così da spostare l’opinione pubblica a favore di Trump. Se a tutto questo si aggiunge che probabilmente in questo gioco intervennero anche molte società straniere, probabilmente russe, che avevano tutto l’interesse a promuovere l’elezione di Trump invece che quella di Hillary Clinton, si può ben capire come il tema della politica al tempo del digitale sia davvero complesso, intricato.

 La comunicazione non ostile

Lo spazio della rete, con il suo “finto anonimato”, favorisce inoltre il proliferare degli haters, ovvero delle persone che usano i social per alimentare la piramide dell’odio nei confronti di singole persone (in genere persone famose o semplicemente salite alla ribalta in quel periodo) o interi gruppi sociali (donne, immigrati, gay, ….) spingendo, spesso nell’indifferenza generale, ad avviare concrete azioni di rifiuto, violenza e persecuzione nei loro confronti. Ovviamente gli haters agiscono in modo particolare nel mondo della politica e del confronto tra idee e posizioni all’interno del dibattito politico seminando incomprensione, odio e rischio di violenza.
Sul versante del comportamento individuale è nata da alcuni anni una carta che elenca dieci princìpi di stile utili a migliorare lo stile e il comportamento di chi sta in Rete. Si tratta de Il Manifesto della comunicazione non ostile, un impegno di responsabilità condivisa che vuole favorire comportamenti rispettosi e civili per rendere la Rete un luogo accogliente e sicuro per tutti (https://paroleostili.it/manifesto/).

 Per salvare la democrazia

Assumere comportamenti individuali corretti nella comunicazione politica è certamente corretto ma non è sufficiente. È necessario infatti un diretto ed immediato impegno a livello legislativo per ripristinare uno spazio di confronto democratico che limiti le intrusioni e le possibilità di manipolazione dell’opinione pubblica da parte dei grandi gruppi internazionali che controllano i dati di milioni e miliardi di persone. È un tema di politica globale, come la tassazione degli utili delle società multinazionali, i giganti del web sinteticamente definiti con l’acronimo “Gafa” (Google, Amazon, Facebook, Apple) e che oggi hanno molto più potere di tantissimi stati. E non è un potere democratico.
E torniamo così alle riflessioni di Shoshana Zuboff e al golpe cognitivo: l’opinione pubblica ha cominciato a capire che il business della propaganda politica è uno strumento con cui l’azienda dà a noleggio la propria gamma di strumenti per raggiungere utenti mirati, manipolarli e seminare il caos cognitivo, orientando tutta la macchina verso obiettivi politici più che commerciali. Occorre ripristinare la legalità democratica: negli ultimi anni sia negli USA che in Europa sono in discussione importanti normative finalizzate da un lato a garantire la privacy e dall’altro a mettere sotto controllo i giganti del web. È su questo terreno che si gioca la partita della politica e della democrazia dei prossimi decenni.