La moltiplicazione dei pani e dei francescani

Il dis-ordine francescano tra frammentazione, nostalgia e diversità perfetta 

di Dino Dozzi
direttore di MC

 La storia francescana può bene collocarsi tra Babele e Pentecoste, due racconti che mettono in gioco l’unità e la diversità, con possibilità di interpretazioni diverse, se non contrapposte. Un po’ come la politica.


Nel racconto di Babele «un unico popolo e un’unica lingua» è il punto di partenza da cui nasce il progetto umano prometeico di costruire «una torre la cui cima tocchi il cielo», il sogno megalomane, adolescenziale e pretenzioso di «farsi un nome», insieme con la paura infantile del «disperdersi su tutta la terra». La confusione delle lingue operata dal Signore, liberata dall’impressione di un pizzico di permalosa punizione divina, provocherà (o permetterà) la dispersione su tutta la terra e risulterà quindi provvidenziale, come peraltro anticipato nella “tavola dei popoli” di Genesi 10. Ma ci vorrà il senno di poi o una lettura di fede per cogliere come provvidenziale la “punizione” divina della divisione-confusione-dispersione e lo stesso peccato di autonomia da cui deriverà una possibile lettura redentiva.

 Puniti o benedetti?

Secondo alcuni esegeti Gen 11,1-9 descrive un tipico caso di “delitto e castigo”: come Adamo ed Eva sono condannati perché hanno voluto «essere come dèi» (Gen 3,5.22), così gli uomini di Babele (Gen 11,1-9) sono castigati per aver osato avventurarsi in zone riservate alla divinità. La grande varietà di lingue e quindi di culture sarebbe vista come una conseguenza negativa della presunzione umana, della loro hybris. Questa era già l’interpretazione di Giuseppe Flavio nelle sue Antichità giudaiche. Negli ultimi anni si è notato il vocabolario politico più che religioso del brano e si è fatta strada una nuova ipotesi esegetica: una dura critica delle imprese imperialistiche (babilonesi) e una chiara difesa delle diversità linguistiche e culturali (già presentate come processo naturale nella “tavola dei popoli” di Gen 10). Nell’uso comune “Babele” significa “confusione” e si collega all’interpretazione tradizionale che vedeva la “confusione delle lingue” come punizione. La nuova interpretazione legge come peccato il progetto totalitario omogeneizzante e come provvidenziale la varietà delle lingue. A quale delle due interpretazioni collegare la variegata storia francescana e il suo policromo mosaico anche attuale?
Sospendiamo per un attimo il giudizio e passiamo al racconto della Pentecoste (At 2,1-17), che è essenziale nel libro degli Atti perché introduce il personaggio principale attorno a cui gira la seconda parte dell’opera lucana, lo Spirito, come la prima parte, il vangelo, girava attorno alla figura di Gesù. Evidente è il collegamento tra la Pentecoste e Babele. L’azione dello Spirito permette agli Apostoli di parlare agli uditori nella loro propria lingua: viene qui sottolineata la vocazione universale della Chiesa.

 Unità nella diversità

Il peccato della costruzione della torre di Babele (Gen 11,1-9), soprattutto nella più recente interpretazione esegetica, è «il peccato originale sociale» - vogliamo aggiungere anche “politico”? - consistente nel voler conservare-imporre una lingua unica, una città-civiltà monolitica, una globalizzazione omogeneizzante, un totalitarismo orgoglioso che «salga fino al cielo» sfidandolo e che permetta di «farsi un nome» monumentale ed empio. La Pentecoste (At 2,1-11) viene presentata da Luca e dai Padri come l’anti-Babele, la ripresa del progetto di Dio di «radunare tutte le nazioni e le lingue perché vengano e vedano la gloria del Signore» (Is 2,2-4), donando agli apostoli la capacità di parlare tutte le lingue, permettendo così la costruzione di una società pluralista basata sul rispetto, sulla valorizzazione e sull’armonia delle diversità. Che sia questa la “buona politica” di cui parla papa Francesco nella Fratelli tutti?
C’è un parallelismo tra Gen 11,1 e At 2,1. In entrambi i casi, apparentemente è una situazione di tranquillità, ma in effetti è una tranquillità solo apparente: in Genesi è una situazione di globalizzazione e di omologazione, in Atti si tratta di paura. In Genesi, la dispersione nel mondo e l’abbandono della scalata al cielo avvengono grazie alla provvidenziale “confusione delle lingue”; in Atti, l’uscita dal cenacolo e il coraggioso discorso di Pietro a tutta quella gente di lingue e popoli diversi avviene grazie alla discesa della Spirito che opera il miracolo non della riunificazione delle lingue, ma della capacità degli Apostoli di farsi capire da tutti, di parlare le lingue di tutti.
Come nel caso di Adamo ed Eva Dio si ricorderà della loro tentazione di «diventare come dèi» e in Gesù Cristo troverà il modo di soddisfare il loro desiderio, così nel caso di Babele, Dio riprenderà la loro tentazione di «un unico popolo e di un’unica lingua» e «su tutti effonderà il suo Spirito» (cfr. Gl 3,1; At 2,17) rendendo possibile la reciproca comprensione e l’unità profonda di tutto il genere umano. La Pentecoste redime e porta a compimento il peccato di Babele.

 Tra Babele e Pentecoste

Le divisioni e le incomprensioni della storia francescana fanno parte di una storia di salvezza. Anche in questo caso, come sempre, la salvezza non sta dietro di noi, in un’unità oggetto di nostalgia, ma sta davanti a noi, in una nuova possibilità di comprensione vicendevole, dono dell’unico Spirito: «A ciascuno è data una manifestazione particolare dello Spirito per il bene comune» (1Cor 12,7).
L’itineranza e la provvisorietà sono caratteristiche tipicamente francescane: il nuovo continuamente sostituisce l’esistente; questo a volte crea problemi istituzionali, ma spesso rende possibile il rapido adattamento alle esigenze della vita che cambia. Certo, la frammentazione è un rischio, ma la varietà è una grande ricchezza: accanto ai santi dottori Bonaventura da Bagnoregio e Lorenzo da Brindisi c’è tutta una schiera di santi fratelli questuanti analfabeti. La varietà e la complementarietà, l’accoglienza e la valorizzazione di ogni fratello come dono del Signore piacevano molto a Francesco che indicava come “perfetto frate minore” non un singolo, ma la somma delle qualità di ben dieci fratelli (FF 1782) e che, alla fine della vita, incoraggiava i fratelli a «cominciare tutto da capo» (FF 500).
Negli ultimi otto secoli della loro storia i francescani l’han preso molto spesso alla lettera questo incoraggiamento e, tra una riforma e l’altra, ne è nato quel calderone che, con felice eufemismo, viene chiamato “Movimento francescano” (in perpetuo movimento). Accanto alla «grazia delle riforme», si parla così anche, con serena autoironia, di «dis-ordine francescano». Nel 2017 è stato ricordato il quinto centenario della bolla pontificia di Leone X Ite vos che, per riportare l’unità o almeno la pace, decretò la scissione tra frati minori della regolare osservanza e frati minori conventuali. E, per non farsi mancare proprio nulla e per dare un ulteriore contributo alla varietà imprevedibile della storia francescana, appena una decina di anni dopo nascerà un’ulteriore riforma, quella dei frati minori cappuccini, dei quali fa parte anche chi scrive.
Il francescanesimo continua il suo cammino tra Babele e Pentecoste, tra nostalgia dell’unità e rischio di frammentazione o, se si preferisce, tra il rischio dell’unità globalizzata omogeneizzante e la nostalgia della diversità complementare e armoniosa. Il carisma francescano respira libertà e non ha paura delle diversità, se può permettersi di dare persino a un gesuita il nome e lo stile di Francesco. E anche questa, forse, è politica.